giovedì 7 febbraio 2008

Cistercensi

La spiritualità monastica nella Congregazione di Casamari, nel solco della tradizione benedettino-cistercense, è vissuta con forte accentuazione comunitaria, realizzata in una comunione di ideali, di vita e di beni all'interno della clausura dei monasteri, sotto la responsabilità dell'abate, sacramento della paternità stessa di Dio. In un'atmosfera ovattata di silenzio e di raccoglimento la giornata è articolata, in modo armonico, in tre momenti complementari e convergenti così da assicurare ai monaci un reale nutrimento alle "acque che zampillano per la vita eterna" ed un sano equilibrio psico-fisico: l'opus Dei, la lectio divina, il lavoro.
La famiglia benedettina-cistercense ha coscienza e responsabilità di essere in terra riflesso della liturgia del cielo, eco della lode della Chiesa celeste, sposa senza macchia e senza ruga, che canta senza interruzione (cfr. Ap 19, 1-8) intorno al trono del suo sposo, l'Agnello Cristo immolato e glorificato (cfr. Ap 5, 12).
Con la professione dei voti solenni di ubbidienza, di povertà e di castità, il monaco si impegna, in una risonanza personale, a realizzare in sé la figura biblica della sposa in seno alla sua comunità che diviene, seppure ancora pellegrina e penitente, la famiglia di Dio, esemplificazione e testimonianza dell'avvento del regno di Dio. Il monaco è colui "che veramente cerca Dio" (san Benedetto, Regola, LVIII, 1), che entra nel monastero come alla "scuola del servizio del Signore" (san Benedetto, Regola, prologo, 45), dove "nell'esercizio delle virtù e della fede, il cuore si dilata e la via dei divini precetti viene percorsa nell'indicibile soavità dell'amore" (san Benedetto, Regola, prologo, 49). Ed in questo inizio, in tensione di completezza, egli personalizza le figure delle parabole evangeliche del servo che aspetta sollecito il ritorno del padrone, delle vergini prudenti che attendono vigili, nella notte, l'arrivo dello sposo, e, con spirito proteso verso la pienezza, egli invoca, come le primitive comunità cristiane, il ritorno del Signore: "Maran atha, vieni Signore Gesù" (1 Cor 16,22; Ap 22,20).
La vita di preghiera si snoda attorno alla messa conventuale, perno e momento vivificante della giornata, celebrata con una liturgia particolarmente solenne avvolta dallo spiegarsi coinvolgente, misurato ed essenziale, del canto gregoriano, con cui la comunità, e insieme ciascun monaco, rivive e rinnova il patto nuziale con Cristo nella Chiesa. Altri momenti forti della preghiera comunitaria sono la celebrazione delle Lodi e dei Vespri, all'aurora e al tramonto, simbolicamente vissuti come l'inizio e la fine della vita.
Nella tradizione monastica ha rivestito sempre un'importanza ed un significato pregnante la prolungata ed impegnativa ufficiatura notturna, la preghiera delle Vigilie, (della veglia), considerata come il tempo della ricerca ansiosa e dell'attesa fiduciosa. La spiritualità si riveste, in queste ore della notte dell'insonnia tormentosa della sposa del Cantico dei Cantici: "Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore; l'ho cercato, ma non l'ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l'amato del mio cuore" (cfr. Cant 3,1-2) e dell'amore bruciante di Maria Maddalena che "nel giorno dopo il sabato si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio" (Gv 20,1).
I grandi mistici si sono sbizzarriti nel descrivere e nel classificare le varie tappe del movimento circolare dell'Amore che, discendendo da Dio, si impossessa dell'anima e ritorna a Dio, come arabeschi intorno al motivo di fondo costituito dalla prima lettera di san Giovanni apostolo: "Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui" (1 Gv 4,16). San Bernardo ha cercato di descrivere la sua esperienza di incontro con il Verbo: "Frequentemente è entrato nel mio spirito; ma io non ho mai, nemmeno una volta, percepito il preciso momento del suo arrivo. Ho sentito che era presente; ricordo che Egli è stato con me; talvolta ho avuto persino il presentimento che sarebbe venuto, ma mai ne ho avvertito l'arrivo o la partenza. Donde venisse, quando entrava nel mio spirito, o dove andasse, quando lo lasciava, in che modo entrasse e in che modo uscisse, confesso che, finora, non lo so" (Sermone LXXIV, 5, sul Cantico).
La veglia nella preghiera e nell'ascolto delle letture, durante la notte, alimenta la tensione dell'anima verso la luce interiore, la stella del mattino (cfr. 2 Pt 1,19), in attesa dell'incontro con l'Assoluto al di là del tempo (cfr. Ap 2,28; 22,16). La famiglia monastica chiude la preghiera comunitaria, alla fine della Compieta, con il canto della Salve Regina - che san Bernardo, secondo la tradizione cistercense, ha raccolto dalla bocca stessa degli angeli - e, con sicurezza filiale, si abbandona tra le braccia della Madre del cielo durante le ore del grande silenzio. La ricerca di Dio è sostenuta dal confronto continuo, personale e vitale, con la parola di Dio, la lectio divina, l'acqua che zampilla per la vita eterna: "Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Dt 8,3; Mt 4,4). San Benedetto, raccogliendo la tradizione monastica antecedente, prescrive questo nutrimento dello spirito non soltanto durante i pasti nel refettorio (cfr. san Benedetto, Regola, c. XXXVIII), ma anche prima del riposo notturno, inserendolo in qualche modo nella Compieta: una lettura fatta in pubblico, soprattutto per coloro che non sanno leggere o che non sanno trovare il tempo e il modo per nutrire il proprio spirito (cfr. San Benedetto, Regola, c. XLII). Egli prevede, inoltre, altri momenti della giornata monastica dedicati alla lettura personale, soprattutto nel tempo di Quaresima.
Nel capitolo LXXIII della sua Regola, poi, san Benedetto ci ha lasciato una panoramica di letture che comprendono il vecchio e il nuovo Testamento, gli scritti, le Collezioni, le Istituzioni e le vite dei Padri e la Regola di san Basilio, una gamma molto vasta di opere spirituali che, poi, sono confluite nei volumi della Patrologia greca e latina. I monaci benedettini, nelle loro "officine dello spirito", hanno contribuito molto a conservare questi testi antichi e, con il lavoro di trascrizione, hanno reso alla civiltà cristiana un grande servizio, trasmettendo soprattutto, con il cuore la Parola di Dio. Nello scrittoio il monaco benedettino, infatti, si accingeva alla trascrizione dei testi sacri con la stessa devozione con cui un monaco russo si accinge a dipingere una sacra icona. La lectio divina comporta non una lettura informativa, leggera e superficiale, ma un'assimilazione progressiva attraverso la meditazione, la ruminazione per giungere alla compunzione, alla sapienza del cuore. Si è instaurata, così, nei monasteri una teologia sapienziale che ha, prima, contrastato la nascita e, poi, ha fatto da contrappeso all'arida dialettica scolastica. Proprio l'aspra polemica tra san Bernardo e Abelardo ha emblematicamente rappresentato, nella prima metà del XII secolo, la sofferenza di uno slittamento, nella ricerca di Dio, dal cuore alla ragione, dalla recettività umile del mistero alla rivendicazione dell'autonomia della ricerca umana che, a lunga scadenza, ha progressivamente impoverito e inaridito l'uomo, dopo essersi tagliato ogni possibilità di relazione con il mistero arcano del trascendente. Risuonano ancora severe e ammonitrici le parole di Gioacchino da Fiore ai confratelli: "Coloro che non si nutrono della Parola di Dio non hanno nulla di monastico all'infuori dell'abito cistercense e sono destinati ad inaridirsi come rami secchi senza produrre frutto; essi non possono sopportare l'ideale monastico e, di conseguenza, con il corpo o con il cuore ritornano nel mondo" (Concordia Novi et heteris Testamento).
Nel capitolo XLIII della Regola san Benedetto, raccogliendo gli insegnamenti di san Paolo e gli esempi della tradizione monastica anteriore, fissa ad orari ben definiti, in una continuata interazione tra lectio divina e lavoro, il tempo della giornata in cui i monaci non sono impegnati nella preghiera corale comunitaria: "L'ozio è nemico dell'anima; e quindi i fratelli devono in alcune determinate ore occuparsi del lavoro manuale, e in altre ore, anch'esse ben fissate, nello studio delle cose divine" (san Benedetto, Regola, c. XLIII, 1). Ne risulta, nel ritmo della vita monastica, un avviluppamento ed una compenetrazione, un fluire e refluire, tra Opus Dei, lectio divina e labor manuum, i tre momenti della giornata, ben armonizzati tra loro e finalizzati, tutti, alla ricerca di Dio.
Con accenti di paterna sollecitudine e comprensione il santo patriarca richiama la nobiltà e la santità del lavoro manuale, in una cultura in cui esso viene disprezzato come opera riservata agli schiavi: "Se, poi, le condizioni del luogo o la povertà richiedono che gli stessi monaci si occupino nel raccogliere i frutti della terra, non ne siano malcontenti, perché allora sono veri monaci quando vivono col lavoro delle loro mani, come i nostri padri e gli Apostoli; tutto, però, si faccia con discrezione, tenendo conto dei più deboli" (san Benedetto, Regola, c. XLVIII, 7-9). Lo spirito di servizio, nel disimpegno degli incarichi comunitari, viene considerato come una fluidificazione palpabile della carità da cui emana il buon odore di Cristo.
La carità si riversa con fede misericordiosa - ante omnia et super omnia - sui fratelli infermi, l'immagine del Cristo sofferente (san Benedetto, Regola, c. XXXVI), con comprensione e indulgenza sugli anziani e sui fanciulli considerati le membra deboli del corpo monastico (san Benedetto, Regola, c. XXXVII), con spirito di devozione e dedizione, come alla persona di Cristo, sugli ospiti e sui pellegrini (san Benedetto, Regola, c. LIII), sui poveri che bussano alla porta del monastero: "I poveri e i pellegrini sono accolti con particolari cure e attenzioni, perché specialmente in loro si riceve Cristo; mentre ai ricchi si è portati a rendere onore per la stessa soggezione che incutono" (san Benedetto, Regola, c. LIII, 15).
La carità vera si nutre con il lavoro personale; i beni del monastero sono i beni di Cristo, riservati ai poveri. Oltre il disimpegno degli uffici comunitari e il lavoro, in casi straordinari, nei campi, san Benedetto prevede anche il lavoro creativo degli artifices (gli artigiani e gli artisti), nelle officine del monastero. Con grande intuizione egli instaura nella casa di Dio anche il culto del "bello" oltre che del "buono", facendo del monastero un cenacolo di pietà cristiana ed un centro di promozione umana.
Il lavoro, svolto in nome e sotto il controllo dell'obbedienza, coordinato ed organizzato in vista del benessere comune, non è solamente un esercizio di ascesi penitenziale e una necessità imposta dalla legge della sussistenza, ma anche un momento di creatività e un mezzo di progresso. Il lavoro monastico ubbidisce, tuttavia, non alle regole dell'affermazione personale e del massimo profitto, ma al disegno di elevazione spirituale del monaco e all'esigenza di testimonianza di carità cristiana; con pochi e incisivi periodi, san Benedetto scolpisce i suoi propri profondi convincimenti, fissando le regole morali che tengono lontano dai monasteri ogni sospetto di frode e la sete di cupidigia. Il clima di un'abbazia benedettina è regolato da alcuni principi fondamentali, che formano le coordinate spirituali perché essa sia la casa di Dio: 1. "... In tutto sia glorificato Dio" (l Pt. 4,11; san Benedetto, Regola, c. LVII, 9), 2. "... Nella casa di Dio nessuno si turbi e si rattristi" (san Benedetto, Regola, c. XXXI, 19), 3. "... Tutte le membra saranno in pace" (san Benedetto, Regola, c. XXXIV, 5), 4. ... La casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente" (san Benedetto, Regola, c. LIII, 22).
Il pullulare di abbazie e dipendenze benedettine per un millennio e mezzo, sotto denominazioni diverse ma derivanti tutte dal medesimo ceppo, ha permeato talmente l'Europa cristiana che è difficile distinguere e separare, nella nostra spiritualità storia e cultura, l'esperienza cristiana dall'influsso benedettino. Forse bisognerebbe completare l'affermazione del "laico" Croce: "Perché non possiamo non considerarci cristiani" con l'altra: "Perché non possiamo non considerarci benedettini".
Le abbazie, cui ha fatto sempre capo la profonda e capillare penetrazione di presenza nelle campagne abbandonate, sono state capisaldi della storia, centri di promozione umana, di ordine sociale, di irradiamento culturale, di manifestazione artistica, di iniziativa politica. Tenendo alta la fiaccola della fede sull'onda del tempo e sul cozzare degli egoismi umani, queste "cittadelle dello spirito", ubicate sulla cresta dei monti o sul fondo delle valli, sono state modello di partecipazione fraterna per l'umanità sofferente e testimonianza di cristianesimo realizzato.
La proclamazione di san Benedetto a Patrono d'Europa è il dovuto riconoscimento all'azione ultramillenaria dei figli che non hanno soffocato l'ideale del Padre e un auspicio di recupero cristiano e monastico delle radici della cultura europea. I monasteri benedettini sono sempre vissuti in sintonia ed in osmosi con la Chiesa, anche perché il vescovo diocesano viene chiamato direttamente in causa, almeno in alcune circostanze particolari, da san Benedetto stesso.
Essi sono divenuti, tuttavia, gli elementi portanti e determinanti nel cuore della Chiesa con la riforma gregoriana, nei due secoli a cavallo del primo millennio cristiano. In una Chiesa dilaniata da divisioni e scismi a causa della politica del potere laicale, con l'episcopato asservito e condizionato dalla politica imperiale, con il papato soggetto ai colpi di mano delle più potenti famiglie romane, l'abbazia di Cluny e gli altri monasteri ad essa giuridicamente e idealmente collegati hanno rivendicato pugnacemente ed efficacemente, in una contesa lunga e spinosa, libertà di azione, autorità morale e giuridica, rinnovamento spirituale. L'esponente più rappresentativo dal movimento cluniacense è considerato Ugo, abate di Cluny del 1049 al 1109, padrino dell'imperatore Enrico IV, amico e confidente di Gregorio VII, maestro di Urbano II; egli garantì all'Ordine un grande respiro anche fuori d'Europa ed un grande risveglio religioso ed artistico. Cluny rappresentò e conseguì il successo di libertà religiosa senza, tuttavia, scalfire la struttura feudale: con la sola esenzione entrò in possesso di monasteri e chiese con tutti i diritti, jus et possessio, conseguendo prestigio e benessere economico. Da questo stato di cose derivò, in genere, un certo disprezzo per il lavoro manuale, qualche mitigazione della Regola di san Benedetto in alcuni punti più duri, un notevole sfarzo nella suppellettile liturgica e nella decorazione delle chiese, l'ingerenza, o almeno il coinvolgimento, qualche volta, in questioni politiche.
Accanto all'espansione dell'Ordine benedettino, e forse proprio come reazione all'influsso sociale e politico della riforma cluniacense, si accentuò nel secolo XI l'aspirazione al monachesimo delle origini del cristianesimo, inteso come fuga dal mondo, vita di povertà, desiderio di estremo ascetismo, di mortificazione, di tensione vibrante verso Dio: san Nilo, san Romualdo, Stefano di Muret, san Bruno, Roberto di Arbrissel, san Norberto, i Canonici Regolari suscitarono e lasciarono, con le loro istituzioni, un richiamo alla vita eremitica e un forte anelito di ascesi. Su tutte ben presto, però, si affermò, per importanza e diffusione, l'Ordine di Cîteaux. La saggezza di san Benedetto si dimostrò molto più durevole dello zelo di uomini dalla forte spiritualità. La maggior parte delle fondazioni eremitiche o semi-eremitiche si disintegrò, fu assorbita da riforme successive o perse importanza, mentre i Cistercensi segnarono la storia dei secoli seguenti.