venerdì 3 luglio 2009


Cristiani nelle terre del Corano

Con Gesù in mezzo all’islam

«Lo dico sempre con tanto amore ai giudei: voi siete come me chiamati alla fede in Gesù. Come anche i musulmani. Gesù veramente chiama tutti. E la sua non è una nuova religione contro quelle di prima o di dopo. È qualcosa d’altro. Un’altra cosa».

Intervista con Grégoire III Laham, patriarca di Antiochia dei Greco-Melkiti

di Gianni Valente

Sulla condizione presente e sul destino dei cristiani in Medio Oriente tornano a concentrarsi attenzioni diffuse. C’è chi, seguendo il Papa, esprime in questo modo la sollecitudine per i drammi e le sofferenze vissuti dall’inerme gregge di Cristo nelle terre dove è iniziato il cristianesimo. In altri casi, tanto zelo appare spesso predeterminato da fattori di schieramento cultural-politico. Pochi ascoltano gli argomenti e le ragioni dei cristiani arabi. Pochi prendono come punto di partenza il loro sguardo su quello che sta succedendo nella polveriera mediorientale.

Anche per questo può tornar utile ascoltare sua beatitudine Grégoire III Laham, patriarca di Antiochia dei Greco-Melkiti dal 2000.

Quello che accade in Iraq a molti appare come l’epicentro di un fenomeno più grande: la sparizione dei cristiani da tutto il Medio Oriente.

GRÉGOIRE III LAHAM: Gesù ci ha detto di non avere paura. E noi siamo sempre sul punto di avere paura. Ma un pastore deve incoraggiare il suo popolo. Non possiamo cadere nel panico. In Iraq c’è una situazione terribile di crimine, vendetta e terrore. Ai cristiani capita quello che capita agli altri. Qui in Siria sono arrivati un milione e mezzo di profughi iracheni, e tra loro i cristiani sono una piccola minoranza. Vuol dire che da lì fuggono tutti. So che in Occidente qualcuno sta giocando con queste cose. Ma non mi sembra utile ai cristiani di qui il tentativo di isolare le loro sofferenze da quelle degli altri.

La guerra ha portato anche la persecuzione, ha detto il patriarca caldeo Emmanuel III Delly.
GRÉGOIRE III: Ogni approccio ai problemi di qui che non parte da criteri schiettamente politici si ripercuote su di noi. Questo è accaduto in Iraq. Gli americani sono arrivati quasi con l’intento dichiarato di una crociata nuova, che cambiasse il volto del Medio Oriente. Adesso in Libano sento affibbiare l’etichetta di “crociati” perfino ai soldati dell’Unifil. E i cristiani vengono sempre associati a queste strategie occidentali. Nell’ultima lettera di Natale ho scritto: «Cari musulmani, non possiamo tollerare che tra voi ci sia chi ci definisce come gli alleati dei “crociati”. Viviamo, lavoriamo, lottiamo con voi. Costruiamo con voi il futuro di queste nazioni».

In certe analisi il Medio Oriente viene descritto tout court come un luogo di persecuzione dei cristiani.

GRÉGOIRE III: Qui in Siria il governo tratta le chiese come tratta le moschee. Siamo esentati dal pagamento della luce e degli altri servizi. Lo scorso anno, un decreto presidenziale approvato dal Parlamento ha stabilito che i cattolici, su questioni che toccano i diritti individuali come quelle matrimoniali e di eredità, seguano norme giuridiche proprie. In pratica hanno preso il diritto canonico per le Chiese orientali e lo hanno trasferito nel diritto civile. Una o due volte l’anno vado col mio vicario generale a trovare il presidente Assad e i suoi collaboratori. Lui ha voluto pranzare con tutti i patriarchi e i capi delle Chiese in occasione della Pasqua. Parliamo di politica, comprese le relazioni tra Oriente e Occidente E poi vengono a trovarci ministri, parlamentari, shaykh.

La Siria sarebbe uno Stato canaglia. Ma in Medio Oriente, quando i cristiani fuggono, spesso fuggono a Damasco.

GRÉGOIRE III: Qui per noi c’è la migliore situazione di tutto il Medio Oriente. Preghiamo che rimanga. C’è sempre il pericolo che tutto questo venga destabilizzato, magari da chi vuole forzare le cose per creare una nuova situazione di potere nell’area.

Si registra anche in Siria la crescita dell’integralismo religioso tra il popolo?

GRÉGOIRE III: C’è un contagio integralista che si registra in tutto il mondo, e non solo in Medio Oriente. Qui in Siria il governo è forte e cerca di porre degli argini. Per esempio, coi ragazzi si lavora molto coi libri di formazione civica. E anche i testi di catechismo e di insegnamento religioso, compresi quelli nostri, vengono sottoposti al vaglio del Ministero dell’Educazione e di quello della Cultura. Si vigila per garantire che siano ispirati al rispetto reciproco e alla convivenza, senza istigazioni all’odio e al disprezzo verso le altre religioni. Il nostro testo è in vigore da più di quarant’anni, una commissione mista di sacerdoti e professori delle diverse Chiese lo ha rivisto nel 2002, sotto il controllo del Ministero dell’Educazione. Io ne vado molto fiero.

Quali criteri secondo lei devono ispirare lo sguardo e l’atteggiamento dei cristiani verso i credenti islamici?

GRÉGOIRE III: In Vaticano a volte ci hanno detto che noi cristiani orientali dobbiamo lavorare con l’islam per favorire i diritti umani, l’emancipazione della donna, la difesa della vita, la libertà religiosa. Ma che vuol dire? Noi abbiamo una relazione unica, specifica con l’islam, che non è quella che voi avete in Europa con le minoranze islamiche. Io dico sempre: noi siamo la Chiesa dell’islam.

Quest’espressione le piace. La usa spesso.

GRÉGOIRE III: Anche il giornale egiziano Al-Ahram ha scritto che è la formula più riuscita per descrivere la condizione comune dei cristiani nei Paesi arabi e del Medio Oriente. L’islam è il contesto in cui viviamo e con cui siamo storicamente solidali. Abbiamo vissuto 1.400 anni in mezzo a loro. Capiamo l’islam dall’interno. Quando sento un versetto del Corano, per me è un’espressione della civiltà cui appartengo. E a noi tocca di testimoniare Cristo nel mondo dell’islam. Abbiamo una responsabilità unica. Non potremo rispondere come Caino, quando il Signore gli chiese dove era Abele.
Nelle terre dell’islam non sono possibili strategie missionarie.
GRÉGOIRE III: Ma si può approfittare di ogni contatto umano. Mostrare una Chiesa che li ama. Valorizzare tutte le affinità e le simpatie possibili. I dicasteri vaticani possono fare documenti su documenti. Ma poi tocca a noi testimoniare Cristo davanti ai nostri fratelli islamici nella vita di ogni giorno.
Può fare qualche esempio concreto?
GRÉGOIRE III: Una volta, alla fine del Ramadan, il gran muftì di Damasco Ahmed Kaftaro mi ha invitato a predicare dal pulpito della moschea. Anche quando stavo a Gerusalemme mi è capitato tante volte di essere accolto in moschea, dopo le manifestazioni dei palestinesi. Essere Chiesa dell’islam vuol dire anche questo.
Intanto, in Occidente, aumentano le voci di chi sostiene che la violenza è un elemento radicato nella natura stessa dell’islam.
GRÉGOIRE III: Sono travisamenti che prendono a pretesto una lettura fuorviante del discorso di Ratisbona, che il Papa stesso ha sconfessato. Anche la citazione di Manuele Paleologo, che ha fatto esplodere tante reazioni violente, era un’estrapolazione di una disputa lunghissima tra l’imperatore e il saggio islamico, che durava addirittura giorni. Nel Papa non c’era alcuna intenzione di offendere l’islam. E del resto anche il Vangelo può diventare oggetto di manipolazioni maligne e fuorvianti. Ad esempio quando Gesù dice: «Non sono venuto a portare la pace ma la spada».
Gli intellettuali occidentali più polemici con l’islam si spingono a dire che «il nostro Dio non è il loro Dio…».
GRÉGOIRE III: Coi fratelli islamici eviterei discussioni teologiche inconcludenti per stabilire se adoriamo o no lo stesso Dio. Mi sembrano cose da accademia teologica. Il mistero di Dio è così grande, non possiamo comprenderlo. Davanti a esso noi esclamiamo: che bello! Ma che cosa comprendo di questa bellezza, che cosa comprendo di Dio? Quando confessiamo il mistero della Trinità, magari la bellezza di questo mistero può toccare e sorprendere anche gli altri. Ma poi non tocca a noi “dimostrare” questo mistero. Si rischia di essere temerari. Quindi, meglio attestarsi su quanto ha indicato il Concilio Vaticano II: «La Chiesa guarda con stima anche i musulmani che adorano l’unico Dio», i quali, benché «non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione». Del resto, neanche il giudaismo riconosce la Trinità e la divinità di Gesù, Figlio di Dio.
A volte le Chiese d’Oriente vengono presentate come ricettacoli di antisemitismo.
GRÉGOIRE III: È vero proprio il contrario. Lo dico sempre con tanto amore ai giudei: voi siete come me chiamati alla fede in Gesù. Come anche i musulmani. Gesù veramente chiama tutti. E la sua non è una nuova religione contro quelle di prima o di dopo. È qualcosa d’altro. Un’altra cosa. Something else, come dicono gli inglesi.
Riguardo ai rapporti con i cristiani ortodossi, qualche anno fa si era ipotizzato, come esperimento locale di riconciliazione, il ritorno alla piena comunione tra la vostra Chiesa e il patriarcato ortodosso di Antiochia.
GRÉGOIRE III: Avevamo coltivato quel progetto forse con troppa euforia, come se fosse una cosa realizzabile dall’oggi al domani. Il patriarca Maximos, mio predecessore, era già vecchio. Da Roma c’è arrivato un richiamo: continuate a dialogare, ma non arrivate a risultati definitivi in campo teologico senza accordo con la Santa Sede. Purtroppo la nostra gerarchia l’ha preso come uno stop. E adesso la cosa è stata accantonata. Ma con gli ortodossi abbiamo comunque rapporti di fraternità, compresi i ritiri comuni del clero.
Secondo lei quali sono le prospettive del dialogo cattolico-ortodosso in corso sui temi della collegialità e del primato?
GRÉGOIRE III: La Chiesa ortodossa non può accettare l’ecclesiologia romana come tale. Bisogna capire che l’ecclesiologia sviluppatasi nella Chiesa latina non si può imporre ai cristiani orientali. Loro possono accettare il primato del Papa come titolare della prima sedes e come ultima istanza a cui ricorrere. Ma non la prassi del centralismo senza reale collegialità. Se Roma vuole andare avanti bisogna riprendere le formule che Ratzinger aveva esposto negli anni Settanta sul rapporto con le Chiese d’Oriente.
In campo cattolico, anche rispetto al dialogo con gli ortodossi, si parte spesso dal rapporto tra Chiesa universale e Chiesa locale.
GRÉGOIRE III: La Chiesa universale non è la somma di tante Chiese locali. E non è nemmeno un concetto astratto. La Chiesa di Cristo esiste concretamente in un determinato posto. San Clemente papa scrisse la sua lettera intestandola «Dalla Chiesa di Dio, che alberga a Roma, alla Chiesa di Dio, che alberga a Corinto». Mica scrisse alla Chiesa “locale” di Corinto. Dove ci sono i sacramenti, la fede, il Credo, cosa manca? C’è anche il Papa, perché il vescovo o il parroco che celebrano l’Eucaristia sono in comunione con il Papa. La Chiesa una, santa, cattolica e apostolica è presente anche in una piccola parrocchia dove il sacerdote celebra la messa davanti a uno o due fedeli. Non è che c’è “più” Chiesa se ci sono tutti i vescovi riuniti in Concilio. Una goccia di mare ha tutti gli elementi del resto dell’acqua di mare. Così ogni Chiesa in un determinato luogo ha tutti gli elementi dell’unica Chiesa di Cristo.

Cosa risponde a chi dice che le Chiese cattoliche orientali sono d’ostacolo alla riconciliazione con gli ortodossi?
GRÉGOIRE III: Le Chiese orientali cattoliche diventano un problema soprattutto perché gli ortodossi vedono il trattamento che a volte viene loro riservato. Vengono definite Chiese sui iuris, ma poi non si riconosce che il patriarca è capo e padre della sua Chiesa. Vengono nominati vescovi per le nostre comunità in diaspora, ad esempio nei Paesi americani, e noi non abbiamo voce in capitolo su queste decisioni. Ai nostri vescovi arrivano dei formulari in cui si chiede loro: da che Congregazione dipendete? Chissà cosa ne penserebbero i patriarchi e i metropoliti ortodossi: io, patriarca, io vescovo, “dipendo” da un ufficio vaticano? Cosa vuol dire?
Delle Chiese orientali si dice: troppe curie, gelose delle proprie prerogative, e pochi fedeli, sempre di meno. Si offre spettacolo di divisione proprio dove le minoranze cristiane dovrebbero unirsi. Cosa pensa di questa obiezione?
GRÉGOIRE III: Anche in Italia ci sono alcune diocesi piccolissime. E poi qui c’è un elemento della tradizione che va rispettato. Una comunità di fedeli siro-cattolici o ortodossi, per quanto piccola, non può essere assimilata ai greco-ortodossi, ai latini, ai caldei. Vai a sentire le loro liturgie, ascolta i loro inni… Già al Concilio Vaticano II c’era chi tirava fuori questa idea: uniamo tutti i cristiani di un Paese sotto un solo rito e un solo vescovo o patriarca. In Libano il maronita, in Siria il melkita, in Egitto il copto… Ma solo chi le guarda da lontano, con occhio da contabile più che da pastore, può pensare di omologare tradizioni così varie e così ricche.
E a chi stigmatizza la vostra animosità nei confronti di Roma, cosa risponde?
GRÉGOIRE III: Siamo a Damasco. Qui, da quando nel 1724 abbiamo ritrovato la comunione con il vescovo di Roma, siamo stati fuori legge per 120 anni. I sacerdoti andavano con l’abito per le liturgie nascosto nei cesti, entravano nelle case e celebravano messa sottovoce. Abbiamo sofferto molto, per affermare la nostra comunione con la sede di Roma. È un segno di quanto ci teniamo.