martedì 7 agosto 2012
giovedì 14 aprile 2011
mercoledì 8 dicembre 2010
giovedì 5 agosto 2010
Il processo di canonizzazione si svolse a Montesiepi dal 4 al 7 agosto 1185, ossia quattro anni dopo la morte del sant’uomo, negli atti di esso furono raccolte le deposizioni di venti testimoni, tra cui la madre stessa di Galgano, gli eremiti che lo avevano conosciuto e numerose persone che avevano ricevuto miracoli per sua intercessione.
Accanto agli atti del processo, e in gran parte basate su diesse, si pongono alcune biografie redatte fra gli anni Venti del XIII secolo e la meta del XIV secolo; esse sono, nell’ordine
• la “Vita Sancti Galgani de Senis”, composta da un anonimo monaco cistercense (metà del XIII sec.), cui è talvolta attribuito il nome di “Orlando” o “Rolando” da Pisa;
• la “Vita beati Galgani”, scritta da un anonimo monaco agostiniano (prima metà del XIV sec.);
• la “Legenda sancti Galgani confexoris”, del monaco vallombrosano Blasius (Biagio; prima metà del XIV sec.);
• la “Leggenda di santo Galgano”, scritta da un anonimo scrittore in lingua volgare.
(Il termine “Leggenda” non deve lasciarci fuorviare: nel medioevo venivano intitolati così i testi che dovevano essere “letti” da parte del sacerdote ai fedeli, in occasione delle varie solennità e feste – in latino “ad legenda”, gerundio del verbo “legere”, “per leggere”).
A queste fonti si aggiungono una ventina di biografie, composte tra la seconda metà del Cinquecento e gli inizi del Novecento, che raccolgono le notizie presenti nei testi precedenti e le tradizioni trasmesse oralmente fra i gli abitanti di Chiusdino.
Nessun dubbio, quindi, possiamo avanzare sull’esistenza storica di San Galgano: oltretutto i primi documenti che citano il nome del Santo sono del 1191 (diploma dell’Imperatore Enrico VI a favore dei monaci di Montesiepi) e del 1196 (diploma di Filippo di Toscana a favore dei monaci suddetti; atto di donazione di Mateldina di Chiusdino all’eremo di Montesiepi), quindi risalgono ad appena dieci / quindici anni dopo la morte del Santo, un periodo troppo breve per una invenzione agiografica.
Galgano vide la luce a Chiusdino – ove esiste ancora la massiccia casa natale, in Via della Cappella – in data incerta intorno al 1150 da una famiglia della piccola nobiltà locale, legata da rapporti di vassallaggio verso il vescovo di Volterra, signore feudale di Chiusdino; è certo il nome della madre, Dionisia, mentre quello del padre, Guido, appare per la prima volta in una biografia del santo datata alla prima metà del XIV secolo.
Il nome “Galgano” è per nulla originale, benché possa richiamare alla mente il nome di Galvano, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, e quindi tutta la cosiddetta “materia di Bretagna”, era abbastanza diffuso nella Toscana del Medio Evo, anche prima della nascita del Nostro; probabilmente i genitori del santo imposero questo nome al proprio figlio, come omaggio a Galgano Pannocchieschi, vescovo di Volterra fra il 1149 o ’50 ed il 1168 o ’69, che ebbe dall’imperatore Federico Barbarossa il dominio temporale sulla città e sul contado con il titolo di conte, ed in quanto tale fu dunque signore di Chiusdino.
Sugli anni della fanciullezza e dell’adolescenza di Galgano o sulla sua educa¬zione e formazione non sappiamo niente. La madre, che fu testimone al processo di canonizzazione del figlio, tacque del tutto su quest’argomento; in realtà la società dell’epoca cercava di abbreviare il più possibile l’infanzia ed ai fanciulli ben presto veniva chiesto di comportarsi come altrettanti piccoli adulti.
È certo che Galgano sia stato cavaliere. Probabilmente l’accesso del giovane alla cavalleria, fu la naturale conseguenza della sua appartenenza ad una famiglia che esercitava tradizionalmente la funzione ufficiale di rappresentanza e di tutela dell’ordine costituito, una sorta di mano armata del principe, nel nostro caso il vescovo di Volterra, per la protezione delle terre e dei beni della patria, da intendersi come il paese ed il distretto di Chiusdino.
Recentemente si è scritto di una presunta appartenenza di Galgano e del padre ad una sorta di confraternita militare dedicata all’arcangelo Michele. Si tratta purtroppo di una delle tante sciocche invenzioni su San Galgano, diffuse negli ultimi venti o trenta anni: non esiste alcuna prova dell’esistenza di questi cavalieri di san Michele né nelle biografie galganiane, né in altro tipo di documenti dell’epoca – e nemmeno di epoca successiva – che interessino Chiusdino o la realtà senese o volterrana o toscana in genere. Né si può portare quale prova, la devozione della famiglia di Galgano a san Michele arcangelo, poiché questa devozione riguarda l’intera comunità chiusdinese: a san Michele infatti, era (ed è) dedicata la chiesa parrocchiale di Chiusdino! È certo anche che il culto michelita era accolto fra le mura del castello di Chiusdino, poiché in tutta la Toscana esisteva una diffusa venerazione per l’arcangelo, impiantata presumibilmente durante la dominazione longobarda; tutta la regione era ed è costellata di chiese dedicate a san Michele
La consapevolezza di appartenere ad un nobile lignaggio, dedito all’esercizio delle armi per antica tradizione, l’agiatezza, l’ozio, la vanità delle proprie leggiadre forme, produssero nel giovane Galgano un carattere altero e pomposo, dedito molto alla soddisfazione delle proprie inclinazioni malgrado gli ammonimenti dei piissimi genitori.
La morte del padre, avvenuta in data incerta ma sembra intorno al 1178; produsse un cambiamento nel carattere del giovane chiusdinese. Sette giorni dopo il luttuoso evento, Galgano, narrò alla madre di aver fatto un sogno: «San Michele arcangelo lo chiedeva a sua madre per farne un soldato; e mentre la madre lo consegnava all’angelo […] lui stesso seguiva l’angelo».
Già questa esperienza aveva prodotto un profondo cambiamento nell’indole di Galgano, un desiderio di mutare vita, che ad essa un’altra se ne aggiunse: «Dopo che furono passati un po’ di anni», disse ancora Dionisia nella sua deposizione, «poiché spesso Galgano si era soffermato a meditare su questa importante visione, Michele, principe degli angeli, gli apparve in sogno, dicendogli: Seguimi. Al che, subito alzatosi [Galgano] lo seguiva con gioia, andando con lui fino ad un certo fiume, sopra il quale era un grandissimo ponte, che non poteva essere attraversato se non con molta difficoltà. Sotto il ponte gli sembrò che vi fosse anche un mulino. [L’arcangelo e Galgano] dopo aver attraversato [il ponte] giunsero in un luogo delizioso, un prato bellissimo, pieno di fiori che spargevano un odore meraviglioso. Ed uscendo dal prato gli sembrò di entrare in una grotta sotterranea, e di giungere al Montesiepi, dove trovò i dodici apostoli che stavano in una casa rotonda piena di profumo e mirabilmente costruita». Nel sogno gli apostoli invitarono Galgano a sedersi in mezzo a loro e gli porsero un libro aperto, invitandolo a leggervi: «portando a lui un libro aperto, affinché leggesse», ma il giovane, non sapendo leggere, garbatamente accantonò il libro: «egli stesso, invece, poiché non sapeva leggere, lo abbandonò. Levati dunque gli occhi al [Galgano] vide un’immagine e, interrogando gli apostoli, chiese che cosa fosse quell’immagine. Rispondendogli, gli dissero che era l’immagine e la rappresentazione della Maestà Divina. Poiché [Galgano] guardava l’immagine e la casa [gli Apostoli] gli dissero: “A somiglianza di questo [edificio che tu vedi] costruisci qui una casa in onore di Dio, della Beata Maria e dei dodici apostoli e rimarrai qui per molti anni».
Galgano incontrò l’opposizione della madre che tentò di distoglierlo da questa intenzione, addirittura fidanzandolo ad una fanciulla di Civitella, in Maremma, cui a partire dal XVI secolo è attribuito il nome di Polissena. Fu proprio recandosi a conoscere la promessa sposa che Galgano, alla vigilia di Natale del 1180, ebbe una nuova esperienza mistica: sul cammino di Civitella il cavallo di Galgano improvvisamente si fermò: «equus stetit» - disse Dionisia durante il processo per la canonizzazione del figlio – «avendolo [Galgano] spronato con i talloni per farlo andare avanti, senza riuscire a farlo muovere, voltò verso la pieve detta di Luriano e lì vi pernottò. Il giorno seguente – dunque giovedì 25 dicembre 1180, solennità del Natale – come giunse al medesimo luogo [del giorno prima] e come il cavallo non poté andare avanti, lasciò le briglie sciolte sul collo del cavallo e pregò devotamente il Signore perché lo conducesse al luogo in cui avrebbe riposato per sempre», il colle di Montesiepi che il giovane chiusdinese, novello Antonio, avrebbe scelto quale propria Tebaide.
Quale segno di rinuncia perpetua alla guerra, Galgano conficcò il suo spadone di cavaliere nel terreno.
«In terram», è scritto sia nel verbale della deposizione di Dionisia durante il processo di canonizzazione che nelle più antiche biografie, in terra, dunque, non nella roccia. Questo gesto aveva per i cavalieri del Medio Evo un alto significato spirituale: la spada capovolta ricordava la croce! Col suo gesto, Galgano non rifiutava la militia saeculi, ma la superava, la trascendeva, non rinunciava alla spada ma la poneva al servizio di una cavalleria diversa da quella vissuta fino ad allora, diversa e soprattutto più alta, così come la sua conversione esigeva: capovolgere la spada e conficcarla in terra a modo di croce, infatti, significava ribaltare la destinazione dell’arma, da strumento di violenza, ancorché in difesa del diritto, a simbolo e strumento di riconciliazione fra Dio e gli uomini e quindi di salvezza; con questo gesto dunque, il cavaliere Galgano arruolava se stesso nella milizia di un dominus ben più grande di quello terreno, il Signore Gesù Cristo.
C’è chi ha voluto vedere nel gesto di Galgano un legame tra di lui e la Matière de Bretagne, ma in realtà da una parte, nella storia di Galgano, la spada viene, storicamente, piantata, dall’altra, nelle leggende di Artù, la spada viene, o più precisamente verrebbe, estratta, sancendo così il diritto del giovane figlio di Uter Pendragon al trono di Bretagna, e soprattutto se da una parte Galgano ha piantato la spada nella terra, dall’altra Artù ha estratto la spada non dalla roccia ma da un’incudine posta su una roccia.
A nulla valsero a distoglierlo da questa impegnativa decisione le preghiere della madre Dionisia e dei parenti, o gli argomenti degli antichi compagni di bagordi, o la visita dell’avvenente fidanzata, che egli anzi sembra abbia convinto a prendere il velo (Alla fanciulla è attribuita la fondazione del monastero di San Prospero, presso Siena). La notizia della conversione di Galgano si sparse presto nei dintorni, suscitando le reazioni più disparate, dallo stupore alla derisione ma non lasciando nessuno indifferente e presto il giovane vide accorrere al suo eremo nobili e popolani in gran numero. Nel verbale del processo di canonizzazione si leggono almeno cinque testimonianze relative a questi pellegrinaggi presso il santo, mentre lui era in vita, evidentemente per chiedere le sue preghiere o il suo consiglio.
È certo che l’esempio di Galgano trascinasse altre persone: come molte altre esperienze eremitiche, anche quella di Galgano costituì il prodromo per la fondazione di una nuova comunità monastica. Sul Montesiepi, probabilmente Galgano diede vita ad una forma di cenobitismo su scala ridotta, e abbastanza libero e rurale, organizzato intorno ad una regola orale, ispirata a più testi monastici, collocabile all’interno di quel vasto movimento spirituale che dopo il Mille animò gli ambienti popolari, chiericali e monastici, come reazione polemica nei confronti dei mali morali e disciplinari che derivavano alla Chiesa dall’inserimento degli enti ecclesiastici dapprima nel quadro dell’economia curtense e nelle strutture della società feudale e successivamente nel modello economico dei comuni, dominato dall’ansia degli affari e del guadagno; un’altissima tensione spirituale che, se da una parte provocò il sorgere di movimenti eterodossi, dall’altra, in maniera più severa e coerente, condusse al recupero dello stile di vita che era stato proprio dei Padri del deserto, i solitari asceti che sono all’origine del monachesimo cristiano.
Nella primavera del 1181 Galgano si recò dal Papa Alessandro III per ottenere l’approvazione della sua comunità. Galgano non trovò difficoltà a farsi ricevere dal pontefice e si trattenne presso la curia pontificia, il tempo necessario non solo per presentare al papa il suo progetto ma anche per permettere al pontefice di esaudire le sue richieste ed infine ottenne da Alessandro III ciò che più gli stava a cuore, il consenso per continuare la sua esperienza sul Montesiepi e in più il dono di alcune reliquie, cioè quelle dei martiri Fabiano, Sebastiano e Stefano I. Fu forse proprio nell’ambito dell’istituzione di una nuova famiglia religiosa, che il papa consegnò al santo le reliquie da collocare nella chiesa della comunità, una volta che ne fosse stata ultimata la costruzione e fosse stata consacrata.
Contro il santo si mossero alcune persone mosse dal fuoco dell’invidia; esse si portarono sul Montesiepi e lì tentarono di svellere la spada ma non riuscirono ad estrarla, nemmeno scavando tutto intorno, per questo la spezzarono. Queste persone incorsero tuttavia nell’ira divina e due di essi trovarono improvvisamente una morte orribile, infatti uno cadde in un fiumicello d’acqua ed annegò ed un altro fu folgorato da un fulmine; il terzo fu aggredito da un lupo che gli azzannò le braccia, ma fece in tempo a pentirsi e benché mutilato non morì. Fin dalla fine del XIV secolo i nemici di Galgano sono stati identificati nientemeno che nel pievano di Chiusdino, nell’abate di Serena ed in un converso della medesima abbazia; probabilmente i tre volevano impedire a Galgano di insediare sul Montesiepi una nuova famiglia religiosa: i monaci di Serena ed il pievano di Chiusdino potevano avere intuito che Galgano voleva dare una veste istituzionale alla sua comunità e temere che l’incontro col papa avrebbe potuto avere successo (come in effetti ebbe) e costituire il prodromo di una nuova fondazione monastica che avrebbe finito per soppiantare Serena (come in effetti avvenne).
Ritornato dalla Città Eterna, Galgano si pose in contatto con i monaci di un monastero dell’ordine guglielmita, presumibilmente il monastero di San Salvatore di Giugnano, altrimenti detto di San Guglielmo, fra i castelli di Roccastrada e Montemassi, nella valle del fiume Bruna, assai vicino a Montesiepi.
L’esperienza eremitica sul Montesiepi durò meno di un anno: il 30 novembre 1181 Galgano morì santamente, ed il 3 dicembre successivo fu piamente sepolto accanto alla sua spada.
Negli anni che intercorsero fra la morte di Galgano e la sua canonizzazione, la sua tomba divenne mèta di pellegrinaggi e la convinzione che il sant’uomo fosse un potente ed efficace intercessore presso il trono dell’Altissimo, che si era manifestata lui vivente, andò consolidandosi ed estendendosi: gli atti del processo di canonizzazione infatti riferiscono numerosi miracoli, ovvero guarigioni di persone attratte, o contratte (Un termine molto generico col quale tuttavia potrebbero essere stati indicati dei paralitici o degli artritici, dei poliomielitici o degli spastici), liberazione di prigionieri, guarigioni da febbri persistenti o addirittura dalla lebbra, liberazione di posseduti dal demonio e così via.
I pellegrinaggi che si compivano verso il Montesiepi e i miracoli che avvenivano per l’intercessione del santo, attirarono l’attenzione del vescovo di Volterra, Ugo, che si recò sul Montesiepi per condurre una prima indagine conoscitiva delle virtù e dei miracoli di Galgano. L’inchiesta ebbe esiti positivi ed egli autorizzò la costruzione di una cappella a custodia della tomba del santo e della sua spada. Dopo Ugo, il suo successore sulla cattedra volterrana, Ildebrando Pannocchieschi, ottenne l’apertura di un processo da parte del sommo pontefice Lucio III. Il papa nominò tre commissari con il compito di verificare la santità del giovane chiusdinese: siamo certi che fra di essi fu Corrado di Wittelsbach, cardinale vescovo della Sabina ed arcivescovo di Magonza; per gli altri due si pensa a Melior, cardinale prete del titolo dei Santi Giovanni e Paolo, e forse allo stesso Ildebrando Pannocchieschi, vescovo di Volterra.
Non sappiamo se ci fu una vera e propria canonizzazione da parte del sommo pontefice o se la commissione avesse ricevuto dal papa la facoltà di procedere alla canonizzazione, attraverso la iurisdictio delegata, comunque Galgano fu iscritto nell’albo dei santi.
Il “Martyrologium Romanum”, catalogo di tutti i Santi cristiani comprendente il sunto della loro vita e l’indicazione dei giorni in cui essi vengono festeggiati e che viene periodicamente aggiornato, contiene ovviamente il nome di San Galgano.
Nell’editio typica promulgata da papa Gregorio XIII nel 1584, e così in ogni edizione fino a quella promulgata da papa Pio XII nel 1956, se ne fissava la festa al 3 dicembre.
La nuova edizione promulgata da papa Giovanni Paolo II nel 2001, secondo le indicazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, così come l’edizione promulgata dalla Conferenza Episcopale Italiana del 2006, ne portano la festa, per la Chiesa universale, al 30 novembre, giorno della sua morte.
La parrocchia-prepositura di San Michele Arcangelo in Chiusdino e la confraternita del santo, continuano a rispettare l’antica tradizione e a celebrare la festa di San Galgano il 3 dicembre.
dal sito: www.confraternita-sangalgano.it
venerdì 16 ottobre 2009

Chiese, Santuari, Monasteri, Oratori e Cappelle dove abbiamo partecipato alla Santa Messa
- Duomo Cattedrale di Orvieto
- Chiesa di Santa Maria Assunta, Calendasco (PC)
- Abbazia Cistercense di Chiaravalle di Milano
- Abbazia Cistercense della Certosa di Firenze
- Chiesa di Santa Maria In Gariverto - Piacenza
- Santuario Madonna di Guastafredda - Piacenza
- Chiesa di San Savino Rezzanello (PC)
- Chiesa di San Pietro ai Vincoli - Piacenza
- Chiesa di San Giuseppe all'Ospedale - Piacenza
- Cappella di San Riccardo Pampuri, Ospedale di Piacenza
- Monastero Suore Carmelitane Scalze - Piacenza
- Chiesa di San Michele Arcangelo, Rottofreno (PC)
- Romitorio di San Corrado Confalonieri, Calendasco (PC)
- Oratorio della Madonna del Buon Consiglio, Negri di Bramaiano, Bettola (PC)
- Chiesa Abbaziale del SS. Salvatore e San Gallo di Tolla, Monastero di Morfasso (PC)
- Monastero ...
- Cappella San Rocco, Centro E. Manfredini - Piacenza
- Pieve di Vernasca (PC)
- Chiesa di San Colombano, Vernasca (PC)
- Chiesa di Santa Maria del Buon Consiglio in Santa Maria del Popolo, Città di Castello (PG)
- Chiesa di San Pietro in Tranquiano, Agazzano (PC)
- Abbazia di Sant'Antimo - Siena
- Santuario della Madonna della Quercia, Bettola (PC)
- Cappella della Madonna della Quercia, Bettola (PC)
- Chiesa di San Sebastiano, Casanova d'Offredi (CR)
- Chiesa di Santa Barbara, Caserma Col di Lana - Cremona
- Chiesa di Borgo Loreto - Cremona
- Basilica Santuario di Santa Maria di Campagna - Piacenza
- Abbazia Cistercense di Chiaravalle della Colomba, Alseno (PC)
- Chiesa di Sant'abbondio - Cremona
- Monastero dei Missionari Saveriani - Cremona
- Chiesa di San Sebastiano - Cremona
- Cappella dell'Adorazione del Monastero del SS. Sacramento - Cremona
- Chiesa di San Martino Nuova, Riccione (RM)
- Basilica Santuario Madonna di Loreto, Loreto (AN)
- Chiesa di San Rocco, Gazzuolo (CR)
- Chiesa di San Girolamo - Cremona
- Duomo Cattedrale di Cremona
- Chiesa di San Martino, Luvigliano (PD)
- Santuario di Sant'Antonio - Padova (ricevuta Benedizione)
- Duomo di Santo Stefano - Casalmaggiore (CR)
venerdì 27 marzo 2009
Note sulla Chiesa di S. Bevignate
La chiesa di San Bevignate, posta lungo la via etrusca che da Perugia conduceva ad Arna e Gubbio, fu iniziata intorno al 1256 per opera dei monaci-cavalieri Templari.Venne dedicata a un eremita locale del V secolo, emblematica figura attorno alla quale, alla metà del Duecento, si concentrarono anche le attenzioni dei seguaci di Raniero Fasani, ispiratore del movimento religioso riformatore dei Disciplinati, ritenuti i fondatori nonché i primi "occupanti" del sito.
Sul finire del XIII secolo, sempre ad opera dei Templari, alla chiesa fu annesso un convento che testimonia il rilievo via via assunto dal sito.Nel 1312, soppresso l'Ordine dei Templari, San Bevignate passò ai cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, sotto il cui controllo, nel 1324, venne istituito un monastero femminile, che vi restò insediato fino al secondo decennio del Cinquecento.L'austero e vasto edificio in pietra arenaria presenta una pianta rettangolare, con l'abside rialzata sulla cripta.
L'interno, a navata unica, è rivestito da intonaci originali, decorati da affreschi eseguiti in diverse epoche, in cui compaiono numerosi motivi simbolici collegabili all'Ordine templare.La rilevanza storico-artistica che questo complesso riveste, ha fatto del monumento il cardine di "Milites Templi", un progetto internazionale di studio volto alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio templare in Europa.
Il restauro dell'edificio è stato avviato grazie ai fondi regionali per la ricostruzione post sisma del 1997, poi integrati da fondi del Ministero dell'Economia e Finanza, cui ha contribuito anche l'Amministrazione Comunale con risorse proprie.
L'intervento di consolidamento delle strutture - che ha tra l'altro portato in luce un ampio tratto di pavimentazione in mosaico di età romana, oltre ai resti di un impianto produttivo per il tinteggio dei tessuti databile tra I secolo a.C. e I sec. d.C. e il successivo recupero conservativo degli affreschi, sono stati indispensabile premessa alla realizzazione di una prestigiosa sede destinata ad accogliere iniziative ed eventi culturali.Oltre alla principale funzione scientifica del "Centro di Documentazione sull'Ordine dei Templari", con la realizzazione di una vera e propria banca dati in grado di mettere in rete siti architettonici, musei, archivi e istituti di ricerca, riferibili alla storia templare, l'ampio spazio della chiesa offrirà, infatti, anche la possibilità di ospitare attività legate alla convegnistica tradizionale, alle esposizioni temporanee, alla didattica, alla musica e a innumerevoli altre attività artistiche.
Comune di Perugia - Martedì 10 Marzo 2009
mercoledì 30 luglio 2008
giovedì 3 luglio 2008
"hic locus sanctus est"
Il pellegrino che varca la soglia della grande basilica di Santa Maria degli Angeli, nella pianura di Assisi, si sente subito attratto dalla piccola chiesa romanica, centro fisico ma soprattutto cuore spirituale dell'intero santuario. È la Porziuncola, un luogo dell'anima, che viene da molto lontano, dove Francesco ha risvegliato la nostalgia del Paradiso, quello vero, che comincia in terra con una straordinaria tensione, cioè la santità. Se ne accorgono tutti. Simone Weil, filosofa ebrea, sensibilissima e affascinata da Cristo, lo ha anche scritto: "Mentre ero sola nella piccola cappella romanica di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi" (Autobiografia spirituale).
Chi infatti si inginocchia sulla soglia della Porziuncola vi può leggere parole straordinarie per una "piccola porzione di mondo" quale essa è: "hic locus sanctus est", questo luogo è santo, perché Dio vi è sceso e vi si è intrattenuto in colloquio con Francesco, come una volta in altra Terra Santa con Giacobbe e Mosè e Giosuè e Maria... Ma se l'emozione vi prende e vi fa alzare lo sguardo, allora potrete leggere parole altrettanto gravi sul colmo della porta: "haec est porta vitae aeternae" per qui si accede alla vita eterna. Parole da prendere sul serio perché alludono al mistero contenuto in questo scrigno e perché in esse perdura l'emozione di Francesco.
E se resistete ancora un po' all'attrazione di entrare per quella porta e girate invece attorno alla Porziuncola, sul retro, sopra l'abside potrete scorgere un altro segno del tesoro nascosto dentro al luogo santo. Questa volta si tratta di un frammento appena di un più grande affresco della crocifissione, attribuito al Perugino. È rimasta Maria con il suo dolore e le donne pie che la sorreggono e consolano, Francesco abbracciato al legno della croce di Gesù e, al centro dell'abside e non casualmente, la parte inferiore del corpo crocifisso del "buon ladrone", il primo perdonato a varcare da santo la porta, quella definitiva, della vita eterna. "Oggi sarai con me nel Paradiso", gli aveva promesso Gesù morente. Ed egli aveva chiuso gli occhi in pace.
Meravigliosa combinazione! Perché Francesco proprio di questa sua chiesina ha fatto l'eco al perdono di Dio per i pentiti di tutti i tempi. Francesco ha proclamato quel giorno di agosto alle genti riparate all'ombra delle querce: "Fratelli, io vi voglio mandare tutti in Paradiso e vi annuncio una grazia che ho ottenuto dalla bocca del Sommo Pontefice". È l'Indulgenza del Perdono, il tesoro della Porziuncola.
E se finalmente entriamo nella chiesina, siamo subito inondati dalla luce e dai colori del retablo di Prete Ilario da Viterbo, la bella Pala di altare firmata e datata 1393 e restaurata di recente. È la prima testimonianza pittorica che traduce l'immaginario popolare del Perdono di Assisi ed è divenuta modello per i successivi cicli iconografici. Nella successione dei cinque quadri si può leggere il cammino spirituale di Francesco, ritratto come esempio di penitente. La tavola narra del Poverello che si mette a nudo di fronte alle spine del roseto e ai pungoli della vita; si fa discepolo di due angeli; si immerge nella contemplazione di Gesù e della Vergine Maria; si inginocchia davanti alla Chiesa, sua madre; e finalmente annuncia a tutti la sua gioia e il Paradiso che ne è il compimento.
A noi vien chiesto di cominciare proprio da qui, dall'ultimo quadro, dalla voce di Francesco che risuona tra le mura spoglie e crea emozioni e sonorità varie nel nostro spirito. Qui Francesco ha condensato esperienze universali, di quelle che ci interpretano, le sentiamo nostre e le possiamo rifare, iniziando dal desiderio.
Qui Francesco risveglia nostalgie di purezza e suggerisce più protesi pensieri. E ci dice che non si può vivere della vana superficie delle cose ma che solo i significati nuovi, scritti nel cuore di Dio e nel Vangelo, orientano l'uomo. E ci dice ancora che il male è mistero duro e ha bisogno di pentimento e di perdono per essere vinto. Che per servire Dio e il prossimo, delle cose basta una "piccola porzione" (Portiuncula de mundo - 2 Cel 18) e "il resto dallo ai poveri per giustizia e sarai felice".
Che se tu preghi con fede e con cuore puro, allora dal Cielo c'è risposta: basta naturalmente saper fare le domande giuste e non chiedere solamente per sé ("petitionem tuam, Francisce, admitto", è scritto sulla volta della porta centrale della Porziuncola: la tua richiesta, Francesco, la accolgo e la esaudisco). Che tutti gli uomini e le donne sono fratelli e sorelle, e anche il sole e la luna, i fiori e l'acqua del ruscello, gli uccelli e il lupo e tutte le creature hanno lo stesso Padre nostro. Che la croce, se tu l'abbracci, può, per una sorta di alchimia spirituale, trasformare il dolore in gioia e l'amaro in dolcezza di spirito e di corpo. E se della morte hai paura, ci dice ancora Francesco, allora intendi che la paura e la morte sono retaggio del peccato; ma se tu sei in sintonia con la santa volontà di Dio, anche la morte corporale ti è sorella e ti sorride.
È forse già Paradiso, questo?
Sì, la Porziuncola ne è un lampeggiamento, un anticipo, perché essa è la "Porta Santa sempre aperta" in perenne Giubileo di perdono e di grazia, che ci conduce "ad Jhesum per Mariam", come narra il retablo dell'altare in alto nell'apertura a mandorla della trascendenza.
Qualcosa più forte di noi ci costringe ad inginocchiarci.
giovedì 5 giugno 2008
Plinio Correa de Oliveira
fa disprezzare e dimenticare tutto ciò che è
al di fuori, innalzano per loro uso edifici
secondo l’immagine della povertà, secondo
il modello della santa semplicità, secondo le linee
mercoledì 28 maggio 2008

Zaino e New Age sulla Via di Santiago
DI FRANCO CARDINI
Nell’autunno del 1960 i pellegrinaggi, a parte quelli di Lourdes e di Fatima, non erano di moda, e nemmeno troppo studiati. Avevo vent’anni, stavo per entrare nell’Università e mi trovavo in quell’età nella quale càpita di mutar ambienti e amicizie. Ero inquieto e disorientato. Non ricordo più troppo bene neppure chi mi dette l’idea: mi accodai così, per caso, a un gruppo di giovani camminatori degli scout, poi procedetti da solo salvo brevi tratti di strada con accompagnatori casuali. Feci il mio «Camino de Santiago», da Roncisvalle fino al capoluogo della Galizia, da solo. Circa 400 km, più d’un mese di cammino. Era una Spagna arcaica, severa, arida fino al León e piovosa come sempre nel Cantabrico. Le strade principali erano strette e tortuose, malamente asfaltate; i villaggi erano poveri e cupi; le città odoravano di fiori di gelsomino e d’olio di frittura. L’unica segnaletica stradale era costituita dal simbolo del partito unico franchista, la «Falange»: cinque frecce e un giogo di legno verniciati di rosso, l’antica insegna dei Re Cattolici. Si viaggiava isolati o in piccoli gruppi formati casualmente. C’era già qualche «ospizio» per pellegrini in funzione: luoghi modesti, con camere in comune e talvolta una doccia spartana. Ma nei paesi la gente era cordiale, il parroco o l’alcalde ci trovavano sempre da mangiare e da dormire; altrimenti, ci aiutavano i militi della Guardia Civil. Forse fu quel viaggio alla radice della mia passione per il medioevo e per lo studio dei pellegrinaggi. Il seguito ho più volte fatto di nuovo il cammino, mai più però a piedi: sempre in auto o in pullman, con amici, colleghi o studenti. Santiago di Compostela è tra l’altro sede frequente di convegni. I miei passi di pellegrino e di studioso si sono tuttavia rivolti più spesso all’altro capolinea della grande via peregrinorum medievale, Gerusalemme. Eppure, se non altro come membro della Confraternita Compostellana fondata anni fa a Perugia da un caro e vecchio amico, l’illustre ispanista Paolo Caucci von Saucken, da tempo mi riproponevo di ripetere il «Camino»: ciò rientra nei miei doveri di confratello. Non ce l’ho ancora fatta a ripercorrerlo del tutto. Ai primi di maggio mi è stata però offerta dal direttore di RadioRai, Sergio Valzania, l’occasione di farne almeno un buon tratto, i circa 250 km tra Burgos e León, attraverso la mia amata Castiglia. Si trattava di un’avventura che per certi tratti mi ha ricordato La Via Lattea, il film girato quarant’anni or sono dal grande Luís Buñuel: due «viaggiatori » dialoganti sulla strada dei pellegrini e i loro dialoghi trasmessi in diretta dalla Rai. I due protagonisti del dialogo erano il cattolico Valzania e un laico, scientista e ateo doc, Piergiorgio Odifreddi: ma per una settimana, appunto tra Burgos e León, io ho sostituito Valzania nell’opporre le ragioni cattoliche della fede all’odifreddiana fede nella ragione. Stabilire come sia andato il confronto non sta a me: gli ascoltatori hanno dimostrato, con molte e-mail, di apprezzarlo. Certo, nessuno aveva l’intenzione di battere l’antagonista, e tanto meno di convertirlo. Debbo comunque dichiarare per onestà, e lo faccio vo- lentieri, che Odifreddi mi ha sorpreso: mi aspettavo un talebano dell’ateismo razionalista e invece mi sono trovato dinanzi un interlocutore intransigente ma anche aperto. Dal canto mio, ho fatto sul serio il pellegrino: ho camminato spesso in silenzio, ho pregato e – giunto alla casa per pellegrini gestita dalla nostra confraternita, a Puente Fitero – ho indossato l’abito di essa con tanto di conchiglie e ho partecipato anch’io con i miei confratelli alla cerimonia della lavanda dei piedi degli altri pellegrini. Eppure, questa bella avventura a piedi per la Castiglia, durata una decina di giorni, se per un verso mi ha commosso e arricchito, per un altro mi ha lasciato addosso apprensione e inquietudine. E la ragione me l’ha in parte spiegata Lino, il valoroso hospitalero volontario della nostra casa, raccontandomi che di là è passato Paulo Coelho, che peraltro non ha compiuto del tutto il pellegrinaggio in quanto si è arrestato sul monte Cebreiro, prima di Santiago. È noto che l’ormai celebre scrittore ha dedicato alla sua esperienza un libro, Il Camino de Santiago, dove l’esperienza del pellegrinaggio cristiano è rivissuta in termini d’iniziazione new age, con tanto di ricerca dei «campi magnetici» di forza. Le parole di Lino e il ricordo di quel libro ambiguo, che anche a me è capitato di sfogliare, mi hanno aiutato a veder chiaro su un fenomeno che sta mutando di significato.


mercoledì 21 maggio 2008

di Franco Cardini
La città-santuario di Mont-Saint-Michel «au péril de la mer», che nelle ore di bassa marea è il culmine vertiginoso di un basso promontorio tra Bretagna e Normandia – 22 km a ovest della città di Avranches – mentre in quelle di alta marea le acque dell’Atlantico lo trasformano in un’isola separandolo dalla terra, è senza dubbio uno dei luoghi più affascinanti e «paurosi» del Vecchio Continente, del quale rappresenta uno degli hauts lieux . Qui fu edificato in pieno Trecento uno dei più begli esempi dell’architettura gotica francese. Ma il santuario dedicato all’arcangelo Michele che ne è il culmine, e attorno al quale aleggiano secolari leggende, ha davvero un ruolo centrale nella nostra storia. Per secoli, fin dalla nascita del cristianesimo, i più celebri santuari e mete di pellegrinaggio della fede rimasero (a parte Roma) in Oriente. Gerusalemme e Costantinopoli naturalmente, ma anche i grandi centri sacrali armeni, anatolici, egizi. Le aree sacrali più spinte verso l’Occidente erano, non a caso, quelle italomeridionali, per secoli parte dell’universo bizantino. Ma gradualmente le Chiese occidentali – prima forse quella celtica tra Bretagna e Irlanda, poi con maggior decisione quella romana – cominciarono a impiantare a loro volta santuari dotati d’una loro sacralità autoctona, «originale». Alla base di questo rinnovamento troviamo proprio, a partire dai primi dell’VIII secolo, il culto michelita di Mont-Saint-Michel; più tardi, in seguito a varie translationes di reliquie e a diversi episodi miracolosi, si radicarono nell’Europa occidentale i santuari della Vergine a Le Puy e a Chartres, del Santo Sangue a Mantova e a Fécamp, di san Michele in Piemonte, di san Giacomo a Compostela in Galizia, di san Marco a Venezia, di santa Maria Maddalena a Vézelay, dei santi Pietro e Marcellino a Seligenstadt, di san Nicola a Bari, della Santa Tunica ad Argenteuil; mentre si affermava anche il pellegrinaggio alla tomba di Carlo Magno in Aquisgrana. Nasceva così l’Europa dei pellegrinaggi, i centri della quale furono collegati da una fitta rete di strade tra le quali quelle note in Italia con il nome di Via Francigena e in Spagna di Camino de Santiago. Mont-Saint-Michel si può pertanto considerare il capostipite dei grandi santuari di pellegrinaggio occidentali. Ma le sue origini, come centro di sacralità, sono con certezza precristiane. Su quell’arduo promontorio battuto dai venti oceanici e come sospeso fra cielo, mare e terra, era radicato un culto al dio celtico Belenos: ne resta memoria forse nei toponimi Tombelaine e Mont Tombe. In età romana si era già avviata una qualche soluzione acculturativa tra la divinità celtica Belenos e quella persiana Mithra, molto adorata specie nelle legioni romane e al centro di un culto misterico il fulcro del quale era il taurobolion, il sacrificio di un toro sacro. Più tardi, alcuni eremiti cristiani erano venuti a stabilirsi nei dintorni: tra essi la tradizione vuole giungesse da una delle capitali della vita spirituale gallo-romane, Poitiers, l’evangelizzatore della zona, san Paterno (che i francesi chiamano saint Pair) che, prima di divenire a metà del secolo VI vescovo di Avranches, vi fondò un monastero. Un suo successore, sant’Auberto, ricevette nel 708 in sogno, durante una visio, l’ordine dall’arcangelo Michele di costruire in suo onore un monastero sul Mons Tumba. Dopo molte sollecitazioni, il buon vescovo si mise alla ricerca del luogo, che egli avrebbe riconosciuto da un toro ch’era stato trafugato e là nascosto. l santuario fu fondato: e Auberto inviò messaggeri in Puglia affinché portassero dal Monte Gargano (allora il più celebre santuario dell’arcangelo, sito però in un contesto bizantino per quanto non estraneo ai longobardi italomeridionali) una reliquia micaelica (giunse, in effetti, un frammento del manto dell’arcangelo). Si era appunto ai primi dell’VIII secolo: in un tempo nel quale il culto dedicato agli arcangeli dava luogo a inquietudini e INpolemiche: il radicarsi dei due santuari micaelici, il pugliese e il bretone-normanno, dovette pesare nel sostegno all’immagine del loro titolare. È stata notata l’analogia molto stretta fra il testo dell’Apparitio sancti Michaelis e quello della leggenda di fondazione di Mont-Saint-Michel detto «au péril de la mer»: che il luogo si denominasse, ancora alla fine del Medioevo, «Mont Gargan», è stato posto nel folklore francese in rapporto con un mitico figlio del dio Belenos, cui si attribuiva appunto quel nome, e che è divenuto poi il gigante Gargantua. ell’870 abbiamo la prima voce di testimonianza sicura d’un pellegrinaggio a Mont-Saint-Michel e alla tomba di sant’Auberto: ce l’ha procurato il monaco Bernardo, celebre autore d’un Itinerarium . All’epoca, il monte era rifugio delle genti circostanti contro le incursioni dei pirati nordeuropei che avrebbero più tardi insediato la regione e le avrebbero conferito il suo nome moderno. Infatti nel 911 il norvegese Rollone, capo d’una banda d’incursori danesi, decise d’insediarsi in quell’area e divenne – per concessione del re di Francia – dux Normannorum e anche protettore del santuario. Da allora Michele divenne santo nazionale dei normanni. A Mont-Saint-Michel il duca Guglielmo il Conquistatore volle che fosse affiliato il monastero di Saint Michael in Cornovaglia. Nell’XI secolo gli avventurieri normanni che scendevano in Italia per cercarvi la fortuna non avrebbero dimenticato né la Val di Susa (la 'Sacra' o 'Sagra' di San Michele fu fondata secondo un’incerta tradizione nel 966 o nel 999-1002, mentre oggi si propende piuttosto per il periodo 983-987 collegandola alla volontà di un nobile pellegrino alverniate, Ugo di Motboissier, e di suo figlio Maurizio) né il Monte Gargano: sarebbe nata così una forte tradizione di «pellegrinaggio micaelico», una Via sancti Michaelis tra Normandia e Puglia attraverso le Alpi occidentali. Sulla linea dei tre grandi santuari del Monte Gargano, di San Michele «della Chiusa» (la Sacra) e di Mont-Saint-Michel si costituì l’asse portante del pellegrinaggio micaelico di età medievale. Incrociato con i pellegrinaggi romano (e gerosolimitano) e compostelano, e quindi con quelli mariani ed altri «minori», quest’asse ha costituito fra VIII e XIII secolo la colonna vertebrale dell’autocoscienza identitaria dell’Europa cristiana.
Tratto da Avvenire