giovedì 5 agosto 2010


La Vita di San Galgano

Le notizie biografiche su Galgano si basano sugli atti del processo di canonizzazione: pubblicato per la prima volta dallo storico senese Sigismondo Tizio, nei primi decenni del XVI secolo, nel secondo tomo delle sue monumentali “Historiae Senenses”, e più recentemente da Fedor Schneider, negli anni Venti del Novecento, in “Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken”, il processo di canonizzazione di San Galgano è considerato da storici del calibro di André Vauchez (Professore di Storia medievale all'Università di Parigi – Nanterre; Direttore dell’École Française de Rome) e di Règine Pernoud (Conservatore degli Archivi Nazionali Francesi) come il più antico processo di canonizzazione di cui ci siano pervenuti gli atti.

Il processo di canonizzazione si svolse a Montesiepi dal 4 al 7 agosto 1185, ossia quattro anni dopo la morte del sant’uomo, negli atti di esso furono raccolte le deposizioni di venti testimoni, tra cui la madre stessa di Galgano, gli eremiti che lo avevano conosciuto e numerose persone che avevano ricevuto miracoli per sua intercessione.

Accanto agli atti del processo, e in gran parte basate su diesse, si pongono alcune biografie redatte fra gli anni Venti del XIII secolo e la meta del XIV secolo; esse sono, nell’ordine 

• la “Vita Sancti Galgani de Senis”, composta da un anonimo monaco cistercense (metà del XIII sec.), cui è talvolta attribuito il nome di “Orlando” o “Rolando” da Pisa;
• la “Vita beati Galgani”, scritta da un anonimo monaco agostiniano (prima metà del XIV sec.);
• la “Legenda sancti Galgani confexoris”, del monaco vallombrosano Blasius (Biagio; prima metà del XIV sec.);
• la “Leggenda di santo Galgano”, scritta da un anonimo scrittore in lingua volgare.
(Il termine “Leggenda” non deve lasciarci fuorviare: nel medioevo venivano intitolati così i testi che dovevano essere “letti” da parte del sacerdote ai fedeli, in occasione delle varie solennità e feste – in latino “ad legenda”, gerundio del verbo “legere”, “per leggere”).

A queste fonti si aggiungono una ventina di biografie, composte tra la seconda metà del Cinquecento e gli inizi del Novecento, che raccolgono le notizie presenti nei testi precedenti e le tradizioni trasmesse oralmente fra i gli abitanti di Chiusdino.

Nessun dubbio, quindi, possiamo avanzare sull’esistenza storica di San Galgano: oltretutto i primi documenti che citano il nome del Santo sono del 1191 (diploma dell’Imperatore Enrico VI a favore dei monaci di Montesiepi) e del 1196 (diploma di Filippo di Toscana a favore dei monaci suddetti; atto di donazione di Mateldina di Chiusdino all’eremo di Montesiepi), quindi risalgono ad appena dieci / quindici anni dopo la morte del Santo, un periodo troppo breve per una invenzione agiografica.
Galgano vide la luce a Chiusdino – ove esiste ancora la massiccia casa natale, in Via della Cappella – in data incerta intorno al 1150 da una famiglia della piccola nobiltà locale, legata da rapporti di vassallaggio verso il vescovo di Volterra, signore feudale di Chiusdino; è certo il nome della madre, Dionisia, mentre quello del padre, Guido, appare per la prima volta in una biografia del santo datata alla prima metà del XIV secolo.
Il nome “Galgano” è per nulla originale, benché possa richiamare alla mente il nome di Galvano, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, e quindi tutta la cosiddetta “materia di Bretagna”, era abbastanza diffuso nella Toscana del Medio Evo, anche prima della nascita del Nostro; probabilmente i genitori del santo imposero questo nome al proprio figlio, come omaggio a Galgano Pannocchieschi, vescovo di Volterra fra il 1149 o ’50 ed il 1168 o ’69, che ebbe dall’imperatore Federico Barbarossa il dominio temporale sulla città e sul contado con il titolo di conte, ed in quanto tale fu dunque signore di Chiusdino.
Sugli anni della fanciullezza e dell’adolescenza di Galgano o sulla sua educa¬zione e formazione non sappiamo niente. La madre, che fu testimone al processo di canonizzazione del figlio, tacque del tutto su quest’argomento; in realtà la società dell’epoca cercava di abbreviare il più possibile l’infanzia ed ai fanciulli ben presto veniva chiesto di comportarsi come altrettanti piccoli adulti.
È certo che Galgano sia stato cavaliere. Probabilmente l’accesso del giovane alla cavalleria, fu la naturale conseguenza della sua appartenenza ad una famiglia che esercitava tradizionalmente la funzione ufficiale di rappresentanza e di tutela dell’ordine costituito, una sorta di mano armata del principe, nel nostro caso il vescovo di Volterra, per la protezione delle terre e dei beni della patria, da intendersi come il paese ed il distretto di Chiusdino.

Recentemente si è scritto di una presunta appartenenza di Galgano e del padre ad una sorta di confraternita militare dedicata all’arcangelo Michele. Si tratta purtroppo di una delle tante sciocche invenzioni su San Galgano, diffuse negli ultimi venti o trenta anni: non esiste alcuna prova dell’esistenza di questi cavalieri di san Michele né nelle biografie galganiane, né in altro tipo di documenti dell’epoca – e nemmeno di epoca successiva – che interessino Chiusdino o la realtà senese o volterrana o toscana in genere. Né si può portare quale prova, la devozione della famiglia di Galgano a san Michele arcangelo, poiché questa devozione riguarda l’intera comunità chiusdinese: a san Michele infatti, era (ed è) dedicata la chiesa parrocchiale di Chiusdino! È certo anche che il culto michelita era accolto fra le mura del castello di Chiusdino, poiché in tutta la Toscana esisteva una diffusa venerazione per l’arcangelo, impiantata presumibilmente durante la dominazione longobarda; tutta la regione era ed è costellata di chiese dedicate a san Michele
La consapevolezza di appartenere ad un nobile lignaggio, dedito all’esercizio delle armi per antica tradizione, l’agiatezza, l’ozio, la vanità delle proprie leggiadre forme, produssero nel giovane Galgano un carattere altero e pomposo, dedito molto alla soddisfazione delle proprie inclinazioni malgrado gli ammonimenti dei piissimi genitori.
La morte del padre, avvenuta in data incerta ma sembra intorno al 1178; produsse un cambiamento nel carattere del giovane chiusdinese. Sette giorni dopo il luttuoso evento, Galgano, narrò alla madre di aver fatto un sogno: «San Michele arcangelo lo chiedeva a sua madre per farne un soldato; e mentre la madre lo consegnava all’angelo […] lui stesso seguiva l’angelo».
Già questa esperienza aveva prodotto un profondo cambiamento nell’indole di Galgano, un desiderio di mutare vita, che ad essa un’altra se ne aggiunse: «Dopo che furono passati un po’ di anni», disse ancora Dionisia nella sua deposizione, «poiché spesso Galgano si era soffermato a meditare su questa importante visione, Michele, principe degli angeli, gli apparve in sogno, dicendogli: Seguimi. Al che, subito alzatosi [Galgano] lo seguiva con gioia, andando con lui fino ad un certo fiume, sopra il quale era un grandissimo ponte, che non poteva essere attraversato se non con molta difficoltà. Sotto il ponte gli sembrò che vi fosse anche un mulino. [L’arcangelo e Galgano] dopo aver attraversato [il ponte] giunsero in un luogo delizioso, un prato bellissimo, pieno di fiori che spargevano un odore meraviglioso. Ed uscendo dal prato gli sembrò di entrare in una grotta sotterranea, e di giungere al Montesiepi, dove trovò i dodici apostoli che stavano in una casa rotonda piena di profumo e mirabilmente costruita». Nel sogno gli apostoli invitarono Galgano a sedersi in mezzo a loro e gli porsero un libro aperto, invitandolo a leggervi: «portando a lui un libro aperto, affinché leggesse», ma il giovane, non sapendo leggere, garbatamente accantonò il libro: «egli stesso, invece, poiché non sapeva leggere, lo abbandonò. Levati dunque gli occhi al [Galgano] vide un’immagine e, interrogando gli apostoli, chiese che cosa fosse quell’immagine. Rispondendogli, gli dissero che era l’immagine  e la rappresentazione della Maestà Divina. Poiché [Galgano] guardava l’immagine e la casa [gli Apostoli] gli dissero: “A somiglianza di questo [edificio che tu vedi] costruisci qui una casa in onore di Dio, della Beata Maria e dei dodici apostoli e rimarrai qui per molti anni».

Galgano incontrò l’opposizione della madre che tentò di distoglierlo da questa intenzione, addirittura fidanzandolo ad una fanciulla di Civitella, in Maremma, cui a partire dal XVI secolo è attribuito il nome di Polissena. Fu proprio recandosi a conoscere la promessa sposa che Galgano, alla vigilia di Natale del 1180, ebbe una nuova esperienza mistica: sul cammino di Civitella il cavallo di Galgano improvvisamente si fermò: «equus stetit» - disse Dionisia durante il processo per la canonizzazione del figlio – «avendolo [Galgano] spronato con i talloni per farlo andare avanti, senza riuscire a farlo muovere, voltò verso la pieve detta di Luriano e lì vi pernottò. Il giorno seguente – dunque giovedì 25 dicembre 1180, solennità del Natale – come giunse al medesimo luogo [del giorno prima] e come il cavallo non poté andare avanti, lasciò le briglie sciolte sul collo del cavallo e pregò devotamente il Signore perché lo conducesse al luogo in cui avrebbe riposato per sempre», il colle di Montesiepi che il giovane chiusdinese, novello Antonio, avrebbe scelto quale propria Tebaide.
Quale segno di rinuncia perpetua alla guerra, Galgano conficcò il suo spadone di cavaliere nel terreno.
«In terram», è scritto sia nel verbale della deposizione di Dionisia durante il processo di canonizzazione che nelle più antiche biografie, in terra, dunque, non nella roccia. Questo gesto aveva per i cavalieri del Medio Evo un alto significato spirituale: la spada capovolta ricordava la croce! Col suo gesto, Galgano non rifiutava la militia saeculi, ma la superava, la trascendeva, non rinunciava alla spada ma la poneva al servizio di una cavalleria diversa da quella vissuta fino ad allora, diversa e soprattutto più alta, così come la sua conversione esigeva: capovolgere la spada e conficcarla in terra a modo di croce, infatti, significava ribaltare la destinazione dell’arma, da strumento di violenza, ancorché in difesa del diritto, a simbolo e strumento di riconciliazione fra Dio e gli uomini e quindi di salvezza; con questo gesto dunque, il cavaliere Galgano arruolava se stesso nella milizia di un dominus ben più grande di quello terreno, il Signore Gesù Cristo.
C’è chi ha voluto vedere nel gesto di Galgano un legame tra di lui e la Matière de Bretagne, ma in realtà da una parte, nella storia di Galgano, la spada viene, storicamente, piantata, dall’altra, nelle leggende di Artù, la spada viene, o più precisamente verrebbe, estratta, sancendo così il diritto del giovane figlio di Uter Pendragon al trono di Bretagna, e soprattutto se da una parte Galgano ha piantato la spada nella terra, dall’altra Artù ha estratto la spada non dalla roccia ma da un’incudine posta su una roccia.
A nulla valsero a distoglierlo da questa impegnativa decisione le preghiere della madre Dionisia e dei parenti, o gli argomenti degli antichi compagni di bagordi, o la visita dell’avvenente fidanzata, che egli anzi sembra abbia convinto a prendere il velo (Alla fanciulla è attribuita la fondazione del monastero di San Prospero, presso Siena). La notizia della conversione di Galgano si sparse presto nei dintorni, suscitando le reazioni più disparate, dallo stupore alla derisione ma non lasciando nessuno indifferente e presto il giovane vide accorrere al suo eremo nobili e popolani in gran numero. Nel verbale del processo di canonizzazione si leggono almeno cinque testimonianze relative a questi pellegrinaggi presso il santo, mentre lui era in vita, evidentemente per chiedere le sue preghiere o il suo consiglio.

È certo che l’esempio di Galgano trascinasse altre persone: come molte altre esperienze eremitiche, anche quella di Galgano costituì il prodromo per la fondazione di una nuova comunità monastica. Sul Montesiepi, probabilmente Galgano diede vita ad una forma di cenobitismo su scala ridotta, e abbastanza libero e rurale, organizzato intorno ad una regola orale, ispirata a più testi monastici, collocabile all’interno di quel vasto movimento spirituale che dopo il Mille animò gli ambienti popolari, chiericali e monastici, come reazione polemica nei confronti dei mali morali e disciplinari che derivavano alla Chiesa dall’inserimento degli enti ecclesiastici dapprima nel quadro dell’economia curtense e nelle strutture della società feudale e successivamente nel modello economico dei comuni, dominato dall’ansia degli affari e del guadagno; un’altissima tensione spirituale che, se da una parte provocò il sorgere di movimenti eterodossi, dall’altra, in maniera più severa e coerente, condusse al recupero dello stile di vita che era stato proprio dei Padri del deserto, i solitari asceti che sono all’origine del monachesimo cristiano.

Nella primavera del 1181 Galgano si recò dal Papa Alessandro III per ottenere l’approvazione della sua comunità. Galgano non trovò difficoltà a farsi ricevere dal pontefice e si trattenne presso la curia pontificia, il tempo necessario non solo per presentare al papa il suo progetto ma anche per permettere al pontefice di esaudire le sue richieste ed infine ottenne da Alessandro III ciò che più gli stava a cuore, il consenso per continuare la sua esperienza sul Montesiepi e in più il dono di alcune reliquie, cioè quelle dei martiri Fabiano, Sebastiano e Stefano I. Fu forse proprio nell’ambito dell’istituzione di una nuova famiglia religiosa, che il papa consegnò al santo le reliquie da collocare nella chiesa della comunità, una volta che ne fosse stata ultimata la costruzione e fosse stata consacrata.

Contro il santo si mossero alcune persone mosse dal fuoco dell’invidia; esse si portarono sul Montesiepi e lì tentarono di svellere la spada ma non riuscirono ad estrarla, nemmeno scavando tutto intorno, per questo la spezzarono. Queste persone incorsero tuttavia nell’ira divina e due di essi trovarono improvvisamente una morte orribile, infatti uno cadde in un fiumicello d’acqua ed annegò ed un altro fu folgorato da un fulmine; il terzo fu aggredito da un lupo che gli azzannò le braccia, ma fece in tempo a pentirsi e benché mutilato non morì. Fin dalla fine del XIV secolo i nemici di Galgano sono stati identificati nientemeno che nel pievano di Chiusdino, nell’abate di Serena ed in un converso della medesima abbazia; probabilmente i tre volevano impedire a Galgano di insediare sul Montesiepi una nuova famiglia religiosa: i monaci di Serena ed il pievano di Chiusdino potevano avere intuito che Galgano voleva dare una veste istituzionale alla sua comunità e temere che l’incontro col papa avrebbe potuto avere successo (come in effetti ebbe) e costituire il prodromo di una nuova fondazione monastica che avrebbe finito per soppiantare Serena (come in effetti avvenne).  

Ritornato dalla Città Eterna, Galgano si pose in contatto con i monaci di un monastero dell’ordine guglielmita, presumibilmente il monastero di San Salvatore di Giugnano, altrimenti detto di San Guglielmo, fra i castelli di Roccastrada e Montemassi, nella valle del fiume Bruna, assai vicino a Montesiepi.

L’esperienza eremitica sul Montesiepi durò meno di un anno: il 30 novembre 1181 Galgano morì santamente, ed il 3 dicembre successivo fu piamente sepolto accanto alla sua spada.

Negli anni che intercorsero fra la morte di Galgano e la sua canonizzazione, la sua tomba divenne mèta di pellegrinaggi e la convinzione che il sant’uomo fosse un potente ed efficace intercessore presso il trono dell’Altissimo, che si era manifestata lui vivente, andò consolidandosi ed estendendosi: gli atti del processo di canonizzazione infatti riferiscono numerosi miracoli, ovvero guarigioni di persone attratte, o contratte (Un termine molto generico col quale tuttavia potrebbero essere stati indicati dei paralitici o degli artritici,  dei poliomielitici o degli spastici), liberazione di prigionieri, guarigioni da febbri persistenti o addirittura dalla lebbra, liberazione di posseduti dal demonio e così via.
I pellegrinaggi che si compivano verso il Montesiepi e i miracoli che avvenivano per l’intercessione del santo, attirarono l’attenzione del vescovo di Volterra, Ugo, che si recò sul Montesiepi per condurre una prima indagine conoscitiva delle virtù e dei miracoli di Galgano. L’inchiesta ebbe esiti positivi ed egli autorizzò la costruzione di una cappella a custodia della tomba del santo e della sua spada. Dopo Ugo, il suo successore sulla cattedra volterrana, Ildebrando Pannocchieschi, ottenne l’apertura di un processo da parte del sommo pontefice Lucio III. Il papa nominò tre commissari con il compito di verificare la santità del giovane chiusdinese: siamo certi che fra di essi fu Corrado di Wittelsbach, cardinale vescovo della Sabina ed arcivescovo di Magonza; per gli altri due si pensa a Melior, cardinale prete del titolo dei Santi Giovanni e Paolo, e forse allo stesso Ildebrando Pannocchieschi, vescovo di Volterra.

Non sappiamo se ci fu una vera e propria canonizzazione da parte del sommo pontefice o se la commissione avesse ricevuto dal papa la facoltà di procedere alla canonizzazione, attraverso la iurisdictio delegata, comunque Galgano fu iscritto nell’albo dei santi.

Il “Martyrologium Romanum”, catalogo di tutti i Santi cristiani comprendente il sunto della loro vita e l’indicazione dei giorni in cui essi vengono festeggiati e che viene periodicamente aggiornato, contiene ovviamente il nome di San Galgano.
Nell’editio typica promulgata da papa Gregorio XIII nel 1584, e così in ogni edizione fino a quella promulgata da papa Pio XII nel 1956, se ne fissava la festa al 3 dicembre.
La nuova edizione promulgata da papa Giovanni Paolo II nel 2001, secondo le indicazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, così come l’edizione promulgata dalla Conferenza Episcopale Italiana del 2006, ne portano la festa, per la Chiesa universale, al 30 novembre, giorno della sua morte.
La parrocchia-prepositura di San Michele Arcangelo in Chiusdino e la confraternita del santo, continuano a rispettare l’antica tradizione e a celebrare la festa di San Galgano il 3 dicembre.

dal sito: www.confraternita-sangalgano.it

mercoledì 4 agosto 2010


oggi 4 luglio festa di San Giovanni Maria Vianney Sacerdote.

Ore 19 partecipiamo alla Santa Messa celebrata da S.E. mons. Gianni Ambrosio Vescovo di Piacenza-Bobbio, Chiesa di San Pietro in Tranquiano, Agazzano (PC)

C’è sempre qualcosa di nuovo da dire su San Giovanni Maria Vianney (1786-1859), che è stato uno dei più gr...andi santi del XIX secolo. La sua vita presenta così tante diverse sfaccettature che c’è sempre una nuova lezione che possiamo trarne.
Nei primi decenni del XIX secolo è un seminarista povero. Povero non solo di beni ma d’intelligenza: la sua mente è piccola. Deve fare uno sforzo straordinario per seguire gli studi in seminario ed è bocciato per due volte all’esame finale. Le sue deficienze intellettuali preoccupano molto i superiori: lo si deve ordinare sacerdote? Finalmente,a trent’anni ce la fa per un pelo a passare l’esame, ed è ordinato.
Il vescovo manda questo sacerdote poco dotato in un paesino, il villaggio di Ars. Qui inizia una vita sacerdotale che, contro ogni attesa, illuminerà con la sua luce prima tutta l’Europa, poi tutto il mondo. Pio XI lo canonizzerà nel 1925 e sarà proclamato patrono di tutti i parroci cattolici.
Benché negli anni del seminario non avesse mostrato nessuna delle qualità naturali che caratterizzano un sacerdote eccezionale, diventa un magnifico prete, uno straordinario apostolo, un confessore di raro discernimento e un predicatore di profonda influenza sulle anime.
Che cos’era successo perché quel seminarista un po’ ottuso diventasse un sacerdote così straordinario ed efficiente? Risponde Santa Teresa di Lisieux (1873-1897): “Per l’amore non c’è nulla d’impossibile”. Quello che la santa vuole dire è che chi veramente ama Dio, Nostro Signore e Nostra Signora otterrà sempre i mezzi per compiere l’opera cui la Divina Provvidenza lo chiama. Questo si applica perfettamente a San Giovanni Maria Vianney. Per esempio, meditiamo sui suoi sermoni. Siamo di fronte a un predicatore straordinario. Si prepara le prediche meglio che può, poi se le studia. Ma quando le espone, parla con tanta convinzione, con tanto ardente amore per Dio, con parole così benedette che la grazia di questi sermoni si comunica e tocca tutti coloro che li ascoltano.
Non ho ancora citato un altro suo difetto: non ha una voce forte, e a quel tempo non ci sono microfoni, il che significa che le folle che si radunano ad Ars per ascoltarlo e riempiono la chiesa e anche il sagrato spesso non riescono a sentirlo. E tuttavia le cronache riferiscono di conversioni anche fra coloro che sentono qualche frase ma non la predica nella sua interezza. E perfino fra persone che non sentono una parola: basta loro vederlo.
Nella sua opera fondamentale “L’anima di ogni apostolato”, il benedettino dom Jean-Baptiste Chautard (1858-1935) riferisce questo episodio significativo. Un avvocato anticlericale va ad Ars sperando di ridere a spese di “quell’ignorante del parroco”. Ma torna a casa convertito. Agli amici che gli chiedono: “Ma dunque che cos’hai visto ad Ars?”, risponde:”Ho visto Dio in un uomo”. Cioè: la presenza di Dio si vedeva in San Giovanni Maria Vianney. Chiunque poteva accorgersi che Dio era con lui, anzi era in lui. Mi sembra che la testimonianza dell’avvocato anticlericale sul curato d’Ars – “Ho visto Dio in un uomo” – sia uno dei più gloriosi omaggi che si possano rendere a una creatura umana.
Le benedizioni che derivano dalle sue prediche e il carisma della sua parola si estendono per ogni dove, e tutta l’Europa comincia a venire pellegrina ad Ars. Questa è una delle ragioni per cui le conversioni di San Giovanni Maria Vianney sono innumerevoli.
È anche un martire del confessionale: ci passa ore e ore confessando e consigliando. Non ci rendiamo conto di quale martirio sia passare lunghe ore a sentire le sciocchezze morali che le persone commettono ogni giorno. In confessionale, segue il consiglio di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), il quale raccomanda ai confessori di non avere fretta, di essere pazienti, di considerare ogni penitente come se fosse l’unica persona da ascoltare quel giorno e di aiutarlo a vincere i suoi peccati uno per uno. Così San Giovanni Maria Vianney sfida in battaglia tutti i peccati, insiste sulla pratica delle virtù, consiglia il buon comportamento, e spesso nega le assoluzioni. Sì: se non percepisce una seria volontà di correggersi, nega l’assoluzione al penitente.
Sconsiglia ai suoi parrocchiani la danza. Eppure le danze del suo tempo sono meno immorali e scandalose di certe danze di oggi: le sue parrocchiane ci vanno coperte e con le gonne lunghe. Chissà che cosa direbbe di certi balli del nostro secolo! Eppure nega l’assoluzione a chi non promette di astenersi da certi balli. Alcuni gli rispondono che andranno in un’altra chiesa dove non avranno difficoltà a farsi assolvere. A questi risponde: “Se altri preti vi vogliono aiutare ad andare all’Inferno, che se ne prendano la responsabilità”.
Questo santo straordinario passa tutta la sua giornata in Chiesa: sul pulpito, in confessionale o all’altare. Si potrebbe pensare che alla sera, tornato a casa, possa almeno godersi il meritato riposo. Niente affatto: comincia una nuova lotta, questa volta contro il Diavolo. Per decenni quasi ogni notte combatte il Diavolo – che chiama Grappino – che ogni notte lo assale fisicamente e lo tormenta con rumori assordanti e ingiurie. Nelle notti precedenti alla confessione di un peccatore particolarmente dominato dal Demonio, quest’ultimo si scatena particolarmente contro il Santo. Una volta dà perfino fuoco al suo materasso. In risposta, San Giovanni Maria Vianney ricorre sempre di più alla penitenza e alla preghiera per ottenere da Dio le grazie necessarie a convertire i peccatori.
È molto bello meditare su come la Divina Provvidenza, per accrescere ancora il suo apostolato, gli conceda il dono dei miracoli. In effetti, ne compie molti. Ma si guarda bene dall’attribuirli a se stesso. Costruisce nella sua chiesa un altare dedicato a Santa Filomena vergine e martire (secondo la tradizione 291-304, ma incertezze sui dati storici hanno portato alla sua rimozione dal calendario dei santi), cui attribuisce tutti i suoi miracoli.
Citerò solo un fatto straordinario che rivela il suo dono di leggere nelle anime, quello che tecnicamente si chiama il discernimento degli spiriti. Questo fatto è riferito da una sua penitente, una giovane che apparteneva alle Figlie di Maria. Va a confessarsi dal Curato d’Ars. Appena s’inginocchia, il Santo comincia a raccontarle la storia della sua vita.
“Ti ricordi di essere andata a ballare il tal giorno?”.
“Sì, me lo ricordo”.
“Ti ricordi che a un certo punto un bel ragazzo è entrato nella sala da ballo? Era elegante, sicuro di sé e ballava con diverse ragazze…”.
“Sì, me lo ricordo”.
“Ti ricordi che avevi una gran voglia di ballare con lui?”.
“Ricordo anche questo”.
“Ti ricordi di com’eri triste perché non ti ha chiesto di ballare?”.
“Sì”.
“Ti ricordi di avere guardato per caso le sue scarpe e di aver visto una strana luce bluastra che sembrava venire dai suoi piedi?”.
“Sì”.
Fino a questo punto gli eventi che descrive alla ragazza vengono dal suo dono soprannaturale del discernimento degli spiriti, perché umanamente non li poteva conoscere. Ma a questo punto fa una stupefacente rivelazione:
“Questo ragazzo in realtà era il Diavolo, che aveva preso forma umana per tentare diverse ragazze presenti. Non ha potuto avvicinarti perché come Figlia di Maria eri protetta dalla Madonna e avevi indosso la Medaglia Miracolosa”.
Questo episodio, così lontano dalla nostra sensibilità, è in realtà ricco di lezioni. Spiega la fama straordinaria che aveva nella regione, in Francia, in Europa e nel mondo intero come confessore capace di leggere nell’anima dei penitenti che andavano da lui a confessarsi.
Ci sono molti altri fatti straordinari che possiamo leggere nelle vite di San Giovanni Maria Vianney, e che c’inducono a chiedergli aiuto perché guarisca il clero cattolico di cui è il patrono dai mali che lo insidiano in questi tempi tristi e decadenti dominati da quello che molti chiamano “spirito del Concilio Vaticano II”. E perché gli dia il discernimento per evitare ogni lassismo e liberalismo nella morale e nei costumi.

Autore: Plinio Correa de Oliveira

Traduzione di Massino Introvigne

Fonte: www.cescor.org

martedì 3 agosto 2010


AVE DOMINA ANGELORUM

Gioisci, Maria, gioisci perché hai avuto la bella missione di consolare gli afflitti. Gioisci, splendore di gioia che penetri le mura delle prigioni e degli ospedali. Gioisci, gioia purissima che fai visita ai nostri fratelli prigionieri e torturati a causa del loro indistruttibile attaccamento al Figlio. Gioisci, tu che rinnovi i gesti che facesti ai piedi della croce per tutti coloro la cui vita è una lunga crocifissione. Gioisci, Regina degli angeli che vieni a cercare le amate anime per condurle nella gloria.

DISPOSIZIONI SULLA DISTRIBUZIONE DELLA COMUNIONE EUCARISTICA

Decreto del 27 aprile 2009


Fin dalle sue origini la Chiesa apostolica ha espresso la convinzione di fede che i discepoli s’incontrano con il Risorto, ne fanno esperienza nel primo giorno dopo il sabato ascoltando la Parola di Dio e la sua spiegazione e spezzando il pane eucaristico (cfr. Le 24, 13-35; Al 20, 7-12). San Giustino nella I Apologia, al n. 67 testimonia l’ulteriore sviluppo di questa prassi.

La predicazione degli apostoli, poi, illustrava ai fedeli la grandezza del Sacramento dell’altare e le disposizioni interiori necessarie per potervi partecipare con frutto, senza correre il rischio di mangiare e bere la propria condanna (cfr. 1 Cor 11, 29), ma al contrario perché mangiando di quel pane, Corpo di Cristo dato per la vita del mondo, chi crede possa avere la vita eterna (cfr. Gv 6, 51).

È quindi preciso dovere dell’apostolo esortare spesso i cristiani perché possano ricevere degnamente il Corpo di Cristo plasmando la propria vita ad immagine di Colui che nel sacramento viene ricevuto.

La pietà e la venerazione interiore con cui i fedeli si accostano all’Eucaristia si manifesta anche esteriormente nel modo con cui essi ricevono il Pane consacrato.

La catechesi dei pastori non manchi dunque di soffermarsi anche sul modo con cui ci si può accostare all’Eucaristia perché si eviti il più possibile che il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia sia trattato con superficialità o addirittura in modo irriverente o, peggio ancora, sacrilego.

Dobbiamo infatti prendere atto che purtroppo si sono ripetuti casi di profanazione dell’Eucaristia approfittando della possibilità di accogliere il Pane consacrato sul palmo della mano, soprattutto, ma non solo, in occasione di grandi celebrazioni o in grandi chiese oggetto di passaggio di numerosi fedeli.

Per tale motivo è bene vigilare sul momento della santa Comunione partendo dall’osservanza delle comuni norme ben note a tutti.

La distribuzione dell’Eucaristia avvenga in modo pacato ed ordinato, sia fatta in primo luogo dai ministri ordinati (presbitero e diacono); solo in loro mancanza dai ministri a ciò istituiti (accoliti). Solo in casi veramente eccezionali si ricorra ad altri ministri istituiti (lettori), alle religiose o a fedeli ben preparati.

Durante la Comunione i ministranti assistano il ministro, per quanto possibile, vigilando che ogni fedele dopo aver ricevuto il Pane consacrato lo consumi immediatamente davanti al ministro e che per nessun motivo venga portato al posto, oppure riposto nelle tasche o in borse o altrove, né cada per terra e venga calpestato.

L’Eucaristia è infatti il bene più prezioso che la Chiesa custodisce, presenza viva del Signore Risorto; tutti i fedeli si devono sentire chiamati a fare ogni sforzo perché questa presenza sia onorata prima di tutto con la vita e, poi, con i segni esteriori della nostra adorazione.

In ogni caso, considerata anche la frequenza in cui sono stati segnalati casi di comportamenti irriverenti nell’atto di ricevere l’Eucaristia, disponiamo che a partire da oggi nella Chiesa Metropolitana di S. Pietro, nella Basilica di S. Petronio e nel Santuario della B.V. di San Luca in Bologna i fedeli ricevano il Pane consacrato solamente dalle mani del ministro direttamente sulla lingua.

Raccomandiamo poi a tutti i sacerdoti di richiamare al popolo loro affidato la necessità di essere in grazia di Dio per poter ricevere l’Eucaristia e il grande rispetto dovuto al sacramento dell’Altare: con la catechesi, la predicazione, la celebrazione attenta e amorosa del Santi Misteri, educando i fedeli ad adorare il Dio fatto uomo con l’atteggiamento della vita e con la partecipazione curata in tutto, anche nei gesti, alla Mensa del Signore.

Esortiamo infine i fedeli a mettere ogni impegno perché l’Eucaristia, fonte e culmine di tutta la vita cristiana, sia sempre più amata e venerata, riconoscendo in essa la presenza stessa del Figlio di Dio in mezzo a noi.

Bologna, dalla Residenza Arcivescovile, 27 aprile 2009.

+ Cardinale Carlo Caffarra
Arcivescovo