martedì 19 ottobre 2010



14/10/2010

VATICANO
Sinodo: la difficile realtà dei cristiani d’Arabia, dove “non c’è libertà religiosa”


In Paesi dove l’islam è religione di Stato, nessun musulmano può convertirsi (ma i cristiani possono divenire maomettani), la libertà di culto, dove c’è, è limitata e solo in luoghi designati. In Libano, cristiani uniti confessionalmente, ma divisi politicamente.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “Nessuna libertà religiosa” per i cristiani che vivono in Arabia, anche quando è permesso (non in Arabia Saudita) di avere qualche chiesa. In Libano, invece, il Paese arabo nel quale la presenza dei cristiani è percentualmente maggiore e ha risvolti politici e costituzionali (il presidente della Repubblica è cristiano) essi sono confessionalmente uniti, ma politicamente divisi. Sono le due esperienze di maggior impatto venute ieri dal Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente, dove continuano gli interventi dei presuli, mentre sono iniziati i lavori dei “circuli minores”, i gruppi di studio.

La situazione dei cristiani nella pensiola araba è stata descritta con chiarezza da mons. Paul Hinder, vicario apostolico di Arabia. In Kuwait, Bahrein, Quatar, Emirati Arabi Uniti, Oman, Yemen e Arabia Saudita, ha detto, non ci sono cristiani nativi. I tre milioni di cattolici su una popolazione di 65 milioni di abitanti sono tutti lavoratori migranti provenienti da un centinaio di nazioni, per la maggior parte dalle Filippine e dall’India.
La presenza cattolica nei Paesi arabi con l’islam come religione di Stato si trova do fronte a “leggi severe sull’immigrazione (restrizione del numero dei sacerdoti) e sistema di sicurezza. Diritti individuali e assistenza sociale sono molto limitati”.
Non c’è “libertà di religione (nessun musulmano può convertirsi, ma i cristiani sono benvenuti nell’islam), limitata libertà di culto in luoghi designati, concessi da governanti benevoli (eccetto in Arabia Saudita). Troppo poche chiese, affluenza molto elevata, in una sola parrocchia fino a 25mila  fedeli il venerdì con 10 o più messe. La distanza dalla chiesa, il lavoro, le leggi che regolano i campi, rendono la partecipazione impossibile per molti”.
La Chiesa cattolica è rispettosa della legge e ha la fiducia del governo. Essa “deve adattare le sue strutture e l’attività pastorale ai limiti imposti dalle circostanze esterne”.

Del Libano hanno parlato diversi vescovi, che hanno esaminato prospettive differenti. Mons. Béchara Rai, vescovo di Jbeil dei Maroniti ha sostenuto che “non esiste una divisione sul piano confessionale, bensì una diversità di Chiese sui iuris cattoliche, ortodosse ed evangeliche, avendo ciascuna il proprio patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare. Esiste per contro una divisione sul piano politico che non riguarda l’essenza, bensì le opzioni strategiche. Per quanto riguarda l’essenza, i cristiani sono d’accordo circa alcune costanti nazionali, definite nel documento detto ‘Le costanti’, pubblicato dal Patriarcato maronita il 6 dicembre 2006, accettato e firmato dai capi dei partiti politici cristiani”. “In quanto alle opzioni politiche, la divisione dei cristiani è basata sulla strategia relativa alla protezione di dette costanti e della presenza efficace ed effettiva dei cristiani. Questa divisione è causata dalle condizioni politiche attuali, sia interne sia regionali e internazionali”. In particolare, mons, Rai ha detto che, seguendo la divisione dei musulmani in sunniti e sciiti, i gruppi cristiani hanno scelto di allearsi con gli uni o con gli altri.

Mons. Elie Béchara Haddad, arcivescovo di Sidone dei Greco-Melkiti ha invece parlato del “fenomeno pericoloso” della vendita dei terreni dei cristiani in Libano. Essa “rischia di minacciare la presenza cristiana fino ad annientarla nei prossimi anni”. Per porre rimedio a questo fenomeno, egli propone di creare una strategia di solidarietà tra le Chiese legate alla Santa Sede; modificare il discorso della Chiesa nei confronti dell’Islam al fine di distinguere nettamente tra Islam e fondamentalismo. “Ciò favorisce il nostro dialogo con i musulmani in modo da aiutarci a perseverare nella nostra terra” e passare dal concetto di aiuto ai cristiani d’Oriente al concetto di sviluppo per radicarli nelle proprie terre e trovare loro un lavoro.

L’importanza della formazione, evidenziata già nei giorni scorsi da numerosi vescovi, è tornata negli interventi di due vescovi siriani. Mons. Antoine Audo, vescovo di Alep dei Caldei ha affermato che malgrado la diminuzione del numero delle vocazioni, bisogna “mettere alla prova i candidati prima di ammetterli in seminario”. “Formare i seminaristi al significato profondo di ciascuna liturgia ed essere capaci di apertura all’universalità della Chiesa”.
Per mons. Nicolas Sawaf, arcivescovo di Lattaquié dei Greco-Melkiti (Siria), “viviamo in un mondo secolarizzato e globalizzato in cui il numero di uomini che non sono interessati alla questione di Dio o che agiscono senza riferimenti cristiani è smisurato rispetto al numero ridotto di coloro che si professano cristiani e credenti”. In questo quadro, “coloro ai quali è rivolta la catechesi devono stabilirsi in una doppia relazione: relazione d’appartenenza a una comunità fondata sull’unità della fede e relazione (d’appartenenza) a una comunità fondata sull’unità dell’accettazione del pluralismo e della diversità”. ”In Medio Oriente manchiamo di una catechesi che tenga conto della nostra cultura araba, delle nostre tradizioni cristiane e della ricchezze liturgiche. Manchiamo di un programma catechetico per i catecumeni. Chiediamo uno sforzo nella formazione spirituale dei seminaristi”.

Di rilievo, infine, in una prosettiva ecumenica, quanto sostenuto dall’egiziano mons. Youhanna Golta, vescovo di Curia di Alessandria dei Copti, che, parlando delle Chiese ortodosse del suo Paese, ha affermato che “esse rappresentano le nostre radici, le nostre antenate; sono loro ad aver lottato per difendere la fede cristiana e conservarla per noi fino a oggi. Sono loro ad aver sacrificato martiri, santi, grandi teologi. Perciò, l’unità della Chiesa, che è la preghiera della Chiesa, resta sempre la speranza della storia cristiana”.

18/10/2010

VATICANO
Sinodo: no ad antisemitismo e violenza, ma solidarietà ai palestinesi


La relazione dopo la discussione afferma che la stuazione dei palestinesi favorisce il fondamentalismo islamico, che è in crescita e soffoca ogni forma di libertà religiosa e, spingendo all’emigrazione, impoverisce i Paesi della regione. La scelta del dialogo, ma “nella verità”. I cristiani non si chiudano su se stessi, favoriscano democrazia, giustizia e laicità dello Stato.
Città del Vaticano (AsiaNews) - “Ferme nel rifiuto dell’antisemitismo e dell’antiebraismo, le Chiese del Medio Oriente “pur condannando la violenza da dovunque provenga, e invocando una soluzione giusta e durevole del conflitto israelo-palestinese”, esprimono “solidarietà con il popolo palestinese, la cui situazione attuale favorisce il fondamentalismo”, che prende vigore in tutta la regione. Ne deriva la mancanza di rispetto per la libertà religiosa, che è una delle cause principali della crescente emigrazione dei cristiani e di persone spesso colte di altre religioni, il che priva i Paesi di energie importanti.

E’ esplicita sulla drammatica situazione del Medio Oriente e in particolare dei cristiani che vi vivono la “Relatio post disceptationem”, la relazione dopo la discussione, letta questa mattina al Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, alla presenza del Papa, dal relatore generale, l’arcivescovo l'arcivescovo egiziano Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti.

“Le situazioni politico-sociali dei nostri Paesi - afferma ancora il documento - hanno una ripercussione diretta sui cristiani, che risentono più fortemente delle conseguenze negative”, in particolare di fatti come la guerra in Iraq e il conflitto tra israeliani e palestinesi. A proposito di quest’ultimo, la Relatio ribadisce l'auspicio per la soluzione dei due Stati e ricorda che “a piu' riprese la Santa Sede ha chiaramente espresso la sua posizione, auspicando che i due popoli possano vivere in pace, ognuno nella sua patria, con confini sicuri, internazionalmente riconosciuti”.

Ampio il capitolo sulla libertà religiosa. Essa “è alla base dei rapporti tra musulmani e cristiani” e “dovrebbe essere un tema prioritario nel dialogo interreligioso. Auspicheremmo – afferma il documento - che il principio coranico 'Nessuna costrizione nella religione' fosse realmente messo in pratica”. Alcuni padri sinodali “hanno parlato di costrizioni, di limiti alla libertà, di atti di violenza e di sfruttamento dei lavoratori emigrati in altri paesi”. Quest’ultimo fatto si inserisce nel crescente fenomeno dell'arrivo di numerosi lavoratori africani e asiatici di religione cristiani, in maggioranza donne. “Questi - spiegano i padri sinodali - vengono a trovarsi in un contesto a prevalenza musulmana e a volte con scarse possibilità per la pratica religiosa. Molti si sentono abbandonati, messi di fronte ad abusi e trattamenti scorretti, a situazioni di ingiustizia e d'infrazione delle leggi e delle convenzioni internazionali”. Al punto che “alcuni emigranti cambiano nome per essere accettati meglio e aiutati”.

Pur facendo presenti tali realtà, nessuno dei Padri, però, “ha citato i versetti del Corano sui quali si basani gli estremisti per giustificare il loro comportamento e gli atti di violenza”, e “questo dimostra l'atteggiamento lodevole dei pastori che vedono ciò che ci unisce e mette pace piuttosto che ciò che separa”. “La nostra vicinanza con i musulmani e' consolidata da 14 secoli di vita comune, caratterizzata da difficoltà ma anche da molti aspetti positivi”.

Netta, quindi, la scelta per il dialogo che, per essere proficuo, esige che cristiani e musulmani si conoscano meglio. “Abbiamo il dovere di educare i nostri fedeli al dialogo interreligioso, all'accettazione della diversità religiosa, al rispetto e alla stima reciproci”. “I pregiudizi ereditati dalla storia dei conflitti e delle controversie, da una parte e dall'altra devono essere attentamente affrontati, chiariti e corretti”. In ogni caso, “il dialogo deve realizzarsi nella verità”.

Anche nell’attuale situazione, comunque, i cristiani “tenderanno a radicarsi sempre di più nelle loro società e a non cedere alla tentazione di ripiegarsi su se stessi in quanto minoranza”. Invece, “in base alle possibilità presenti in ogni Paese, i cristiani devono favorire la democrazia, la giustizia e la pace, e la laicità positiva nella distinzione fra religione e Stato e il rispetto di ogni religione”.