giovedì 29 novembre 2007

Regola dell'Ordine dei Templari
secondo San Bernardo


In questa pagina appositamente dedicata, riportiamo il testo integrale, tratto dall'originale latino, della Regola Primitiva dell'Ordine del Tempio, Regola alla quale ancora oggi il nostro Ordine si ispira. Come si potrà constatare, la Regola è durissima, e su di essa venivano stilati i vari regolamenti interni delle Precettorie dell'Ordine, che potevano differire tra loro, se pur di poco. La Regola Primitiva è stata scritta di proprio pugno da San Bernardo di Chiaravalle, il quale si ispirò alla regola benedettina, rendendola ancora più dura. La Regola è composta da 72 articoli, di cui i primi 10 sono dedicati all'aspetto monacale guerriero dell'Ordine. La Regola ha subito poi diverse integrazioni e modifiche, l'ultima delle quali apportata sotto il pontificato di Bonifacio VIII. Questa edizione della Regola inizia con la descrizione della presentazione al Concilio di Troyes nel 1128, con tutti i nomi dei padri conciliari presenti.


Concilio e Regola dei
Poveri Commilitoni di Cristo
e del Tempio di Salomone


"Il nostro (discorso) si dirige innanzitutto con fermezza a tutti coloro, che intendono rinunciare a seguire le proprie volontà, e desiderano con purezza di spirito militare per il sommo e vero Re, perché assumano l'armatura insigne dell'obbedienza, adempiendola con particolarissima cura, e la portino a perfezione con la perseveranza. Esortiamo dunque voi che fino a questo momento avete abbracciato la milizia secolare, nella quale Cristo non fu la causa, ma per solo umano favore, perché facciate parte di coloro che Dio ha eletto dalla massa di perdizione e per gratuita pietà riunì per la difesa della santa Chiesa, vi affrettiate ad associarvi perennemente. Ma innanzitutto, chiunque sei, o soldato di Cristo, che hai scelto tale santa conversazione, è necessario che usi una pura diligenza verso la tua professione e una ferma perseveranza; questa, che è conosciuta essere da Dio, tanto degna santa e sublime, meriterai di ottenere forte, tra i militanti, che diedero le loro anime per Cristo se con purezza e perseveranza sarà osservata. In questo è rifiorito e tornato a splendere l'ordine militare, che, abbandonato lo zelo per la giustizia, mirava a non difendere, come suo dovere, i poveri e le chiese, ma a spogliare, rubare e uccidere. Si vive bene dunque con noi, ai quali il Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo inviò i suoi amici dalla santa città nelle terre di Francia e Borgogna, e non cessano per la nostra salvezza diffusione della vera fede di offrire le loro anime quale ostia gradita a Dio. Noi dunque con infinita gratitudine e fraterna pietà, convenuti, per le preghiere del maestro Ugo, nel quale la sopraddetta milizia ebbe inizio, per ispirazione dello Spirito Santo, dalle diverse zone della provincia ultramontana nella solennità di sant'Ilario, anno 1128 dell'incarnazione del Figlio di Dio, nono dall'inizio della sopraddetta milizia presso Troyes, sotto la guida di Dio, meritammo di ascoltare dalla bocca dello stesso maestro Ugone il modo e l'osservanza dell'ordine equestre secondo i singoli capitoli, e secondo la comprensione della nostra esigua scienza, ciò che a noi sembrava assurdo, e tutto ciò che nel presente concilio a noi non poteva essere a emoria riferito ho detto, non per leggerezza ma per saggezza affidammo per approvazione del comune capitolo in modo unanime alla provvidenza e alla discrezione del venerabile padre nostro Onorio, e dell'inclito patriarca di Gerusalemme Stefano, per sapienza necessità non ignari della religione orientale e neppure dei poveri commilitoni di Cristo benchè il massimo numero di padri religiosi presenti in quel concilio per divina ispirazione raccomandi l'autorità del nostro dettato, tuttavia non dobbiamo passare sotto silenzio i loro pareri e le vere sentenze, io Giovanni Michele, per ordine del concilio e del venerabile abate di Chiaravalle, al quale questo era affidato e dovuto, ho meritato per grazia divina di essere umile scrivano di questa pagina"
Nomi di padri presenti al concilio di Troyes
Presente come primo fu il vescovo di Albano Matteo, legato per grazia di Dio dalla santa Chiesa di Roma, poi Rainaldo arcivescovo di Reims, terzo Enrico Arcivescovo di Sens, quindi i loro corepiscopi, Ranchedo vescovo di Carnotensis, Golseno Vescovo Soissons, il Vescovo di Parigi, il Vescovo di Troyes, il Presule di Orleansm il Vescovo di Auxerre, il Vescovo di Meaux, il Vescovo di Chalons, il Vescovo di Laon, il Vescovo di Beauvais, l'Abate di Vezzelay che non molto tempo dopo fu fatto Arcivescovo di Lione e legato della Santa Romana Chiesa, l'Abate cirstercense, l'Abate di Pontigny, l'Abate della Trois Fontain, l'Abate di S. Denise di Reims, l'Abate di S.Etienne di Dijon, l'Abate di Molesmes….., non mancò il soprannominato Abate Bernardo di Chiaravalle il cui parere i soprascritti spontaneamente approvavano, erano presenti anche il Maestro Alberico di Reims, e il Maestro Fulcherio e molti altri che sarebbe lungo enumerare, inoltre riguardo ai non elencati sembra giusto che siano messi in mezzo come amanti della verità. Il compagno Teobaldo, il compagno di Neverre e Andrea di Baundemant, così assistevano al concilio, con attentissima cura esaminavano ciò che era ottimo, temperavano ciò che a loro appariva assurdo. Lo stesso Maestro Ugo con i suoi discepoli espose ai soprannominati padri, secondo quanto ricordava, il modo e l'osservanza della esigua origine del suo ordine militare il quale prese inizio da colui che dice: "Io, il Principio, che a voi parlo",. Piacque al concilio che, esaminato diligentemente ivi il regolamento con l'aiuto e la correzione delle Scritture, nonché con il suggerimento del Papa dei Romani e del Patriarca dei Gerosolimitani, avuto pure l'assenso del capito dei poveri Cavalieri del Tempio, che è in Gerusalemme, fosse consegnato allo scritto, perché non fosse dimenticato, e indelebilmente fosse conservato: questo perché con retta via meritassero di pervenire degnamente al loro creatore, la cui dolcezza supera talmente il miele che a lui comparato è più amaro dell'assenzio, per il quale militano, e riposino dalla Milizia per gli infiniti secoli dei secoli.
Amen.


Inizia la Regola dei Poveri Commilitoni

della Santa Città


I
Quale divino ufficio debbano udire
Voi che rinunciate alla propria volontà, e tutti gli altri che per la salvezza della anime con coi militano per un certo tempo, con cavalli e armi per il sommo re, abbiate cura di udire con pio e puro desiderio nella sua totalità Matutini e l'Integro Servizio, secondo l'istituzione canonica e la consuetudine dei dottori regolari della Santa Città.
Soprattutto da voi, venerabili fratelli, è dovuto il sommo grado, poiché disprezzata la luce di questa vita, e superata la preoccupazione dei vostri corpi, avete promesso di disprezzare il mondo incalzante per amore di Dio per sempre: rifocillati e saziati dal divino cibo, istituiti e confermati dai precetti del Signore, dopo la consumazione del Divino Mistero nessuno tema la battaglia, ma sia preparato alla corona.

II
Dicano le preghiere del Signore, se non hanno potuto udire il servizio di Dio
Inoltre se un fratello lontano per caso per un impegno della cristianità orientale (e questo più spesso non dubitiamo sia avvenuto) non potesse udire per tale assenza il servizio di Dio: per Matutini dica tredici orazioni del Signore e per le singole ore, sette; per i Vespri, riteniamo se ne debbano dire nove, e questo lo affermiamo unanimemente a libera voce: Questi infatti impegnati così in un lavoro di preservazione, non possono accorrere nell'ora opportuna al Divino Ufficio. Ma se fosse possibile, nell'ora stabilita non trascurino quanto dovuto per istituzione.

III
Che cosa fare per i fratelli defunti
Quando uno dei fratelli professi sacrifica ciò che è impossibile strappare alla morte, che non risparmia nessuno, ciò che è impossibile strappare: ai cappellani e ai sacerdoti che con voi caritatevolmente e temporaneamente servono al Sommo Sacerdote comandiamo con carità di offrire per la sua anima a Cristo con purezza di spirito l'ufficio e la Messa solenne. I fratelli ivi presenti, che pernottano pregando per la salvezza del fratello defunto, dicano cento orazioni del Signore fino al settimo giorno per il fratello defunto: dal giorno in cui fu annunciata la morte del fratello, fino al predetto giorno, il numero centenario venga rispettato con fraterna osservanza nella sua integrità con divina e misericordiosa carità scongiuriamo, e con pastorale autorità, comandiamo, che ogni giorno, come al fratello si dava e si doveva nelle necessità così si dia ad un povero fino al quarantesimo giorno ciò che è necessario al sostentamento di questa vita, per quanto riguarda cibo e bevanda. Del tutto proibiamo ogni altra offerta, che nella morte dei fratelli, e nella solennità di Pasqua, inoltre nelle altre solennità, la spontanea povertà dei poveri commilitoni di Cristo era solita in modo esagerato dare al Signore.

IV
I cappellani abbiano soltanto vitto e vestito
Comandiamo che per comune accordo del capitolo le altre offerte e tutte le altre specie di elemosine, in qualunque modo siano, vengano date con attenta cura ai cappellani o gli altri che restano temporaneamente. Perciò i servitori della Chiesa abbiano soltanto vitto e vestito secondo l'autorità, e non pretendano di avere nulla di più, tranne che i maestri spontaneamente e caritatevolmente abbiano dato.

V
I soldati temporanei defunti
Vi sono tra di noi dei soldati che temporaneamente e misericordiosamente rimangono della casa di Dio, e Tempio di Salomone. Perciò con ineffabile supplica vi preghiamo, scongiuriamo, e anche con insistenza comandiamo, che nel frattanto la tremenda potestà avesse condotto qualcuno all'ultimo giorno, per amore di Dio, fraterna pietà, un povero abbia sette giorni di sostentamento per la sua anima.

VI
Nessun fratello professo faccia un'offerta
Abbiamo decretato, come più sopra fu detto, che nessuno dei fratelli professi presuma di trattare un'altra offerta: ma giorno e notte con cuore puro rimanga nella sua professione, perché sia in grado di eguagliare il più santo dei profeti in questo: prenderò il calice della salvezza, e nella mia morte imiterò la morte del Signore: poiché come Cristo diede la sua anima per me, così anche io sono pronto a dare l'anima per i fratelli,, ecco l'offerta giusta: ecco l'ostia viva gradita a Dio.

VII
Non esagerare nello stare in piedi
Abbiamo sentito con le nostre orecchie un teste sincerissimo, che voi assistete al divino ufficio stando costantemente in piedi: questo non comandiamo anzi vituperiamo: comandiamo che finito il salmo, "Venite esultiamo al Signore" con l'invitatorio e l'inno, tutti siedano tanto i forti quanto ai deboli, per evitare scandalo. Voi che siete presenti, terminato ogni salmo, nel dire "Gloria al Padre", con atteggiamento supplice alzatevi dai vostri scanni verso gli altari, per riverenza alla Santa Trinità ivi nominata, e insegnammo ai deboli il modo di chinarsi. Così anche nella proclamazione del Vangelo, e al "Te Deum laudamus", e durante tutte le Lodi, finché finito "Benediciamo il Signore", cessiamo di stare in piedi, comandiamo anche che la stessa regola sia tenuta nei Matutini di S. Maria.

VIII
Il riunirsi per il pasto
In un palazzo, ma sarebbe meglio dire refettorio, comunitariamente riteniamo che voi assumiate il cibo, dove, quando ci fosse una necessità, a causa della non conoscenza dei segni, sottovoce e privatamente è opportuno chiedere. Così in ogni momento le cose che vi sono necessario con ogni umiltà e soggezione di reverenza chiedete durante la mensa, poiché dice l'apostolo: Mangia il tuo pane in silenzio. E il Salmista vi deve animare, quando dice: Ho posto un freno alla mia bocca, cioè ho deciso dentro di me, perché non venissi meno nella lingua cioè custodivo la mia bocca perché non parlassi malamente.

IX
La lettura
Nel pranzo e nella cena sempre si faccia una santa lettura. Se amiamo il signore, dobbiamo desiderare di ascoltare attentamente le sue parole salutifere e i suoi precetti. Il lettore vi intima il silenzio.

X
Uso della carne
Nella settimana, se non vi cadono il Natale del Signore, o la Pasqua, o la festa di S. Maria, o di tutti i Santi, vi sia sufficiente mangiare tre volte la carne: l'abituale mangiare la carne va compresa quale grave corruzione del corpo. Se nel giorno di Marte cadesse il digiuno, per cui l'uso della carne è proibito, il giorno dopo sia dato a voi più abbondantemente. Nel giorno del Signore appare senza dubbio, opportuno dare due portate a tutti i soldati professi e ai cappellani in onore della Santa Resurrezione. Gli altri invece, cioè gli armigeri e gli aggregati, rimangono contenti di uno, ringraziando.

XI
Come debbono mangiare i soldati
E' opportuno generalmente che mangino due per due, perché l'uno sollecitamente provveda all'altro, affinché la durezza della vita, o una furtiva astinenza non si mescoli in ogni pranzo. Questo giudichiamo giustamente, che ogni soldato o fratello abbia per sé solo una uguale ed equivalente misura di vino.

XII
Negli altri giorni siano sufficienti due o tre portate di legumi
Negli altri giorni cioè nella seconda e quarta feria nonché il sabato, riteniamo che siano sufficienti per tutti due o tre portate di legumi o di altri cibi, o che si dica companatici cotti: e così comandiamo che ci si comporti, perché chi non possa mangiare dell'uno sia rifocillato dall'altro.

XIII
Con quale cibo è necessario cibarsi nella feria sesta
Nella feria sesta riteniamo lodevole accontentarsi di prendere solamente un unico cibo quaresimale per riverenza alla passione, tenuto conto però della debolezza dei malati, a partire dalla festa dei santi fino a Pasqua, tranne che capiti il Natale del Signore o la festa di S. Maria o degli Apostoli. Negli altri tempi, se non accadesse un digiuno generale, si rifocillino due volte.

XIV
Dopo il pranzo sempre rendano grazie
Dopo il pranzo e la cena sempre nella chiesa, se è vicina, o, se così non è, nello stesso luogo, come conviene, comandiamo che con cuore umiliato immediatamente rendano grazie al sommo procuratore nostro: che è Cristo: messi in disparte in pani interi, si comanda di distribuire come dovuto per fraterna carità ai servi o ai poveri i resti.

XV
Il decimo del pane sia sempre dato all'elemosiniere
Benché il premio della povertà che è il regno dei cieli senza dubbio spetti ai poveri: a voi tuttavia, che la fede cristiano vi confessa indubitabilmente parte di quelli, comandiamo che il decimo di tutto il pane quotidianamente consegniate al vostro elemosiniere.

XVI
La colazione sia secondo il parere del maestro
Quando il sole abbandona la regione orientale e discende nel sonno, udito il segnale, come è consuetudine di quella regione, è necessario che tutti voi vi rechiate a Compieta, ma prima desideriamo che assumiate un convivio generale. Questo convivio poniamo nella disposizione e nella discrezione del maestro, perché quando voglia sia composto di acqua; quando con benevolenza comanderà, di vino opportunamente diluito. Questo non è necessario che conduca a grande sazietà o avvenga nel lusso, ma si parco; infatti vediamo apostatare anche i sapienti.

XVII
Terminata la Compieta si conservi il silenzio
Finita la Compieta è necessario recarsi al giaciglio. Ai fratelli che escono da Compieta non venga data licenza di parlare in pubblico, se non per una necessità impellente; quanto sta per dire al suo scudiero sia detto sommessamente. Forse può capitare che in tale intervallo per voi che uscite da Compieta, per grandissima necessità di un affare militare, o dello stato della nostra casa, perché il giorno non è stato sufficiente, sia necessario che lo stesso maestro parli con una parte dei fratelli, oppure colui al quale è dovuto il comando della casa come maestro. Così questo comandiamo che avvenga; poiché è scritto: Nel molto parlare non sfuggirai al peccato. E altrove: La morte e la vita nelle mani della lingua. In questo colloquio proibiamo la scurrilità, le parole inutili e ciò che porta al riso: e a voi che vi recate a letto, se qualcuno ha detto qualcosa di stolto, comandiamo di dire l'orazione del Signore con umiltà e devota purezza.

XVIII
Gli stanchi non si alzino per i Matutini
Non approviamo che i soldati stanchi si alzino per i Matutini, come è a voi evidente: ma con l'approvazione del maestro, o di colui al quale fu conferito dal maestro, riteniamo unanimemente che essi debbano riposare e cantare le tredici orazioni costituite, in modo che la loro mente concordi con la voce secondo quanto detto dal profeta: Salmeggiate al Signore con sapienza: e ancora: al cospetto degli angeli salmeggerò a te. Ma questo deve dipendere dal consiglio del maestro.

XIX
Sia conservata comunità di vitto tra i fratelli
Si legge nella pagina Divina: Si divideva ai singoli, come era necessario per ciascuno. Perciò non diciamo che vi sia accezione di persone ma vi deve essere considerazione delle malattie. Quando uno ha meno bisogno, ringrazi Dio, e non si rattristi: colui che ha bisogno si umili per l'infermità, non si innalzi per la misericordia, e così tutte le membra saranno in pace. Ma questo proibiamo ché a nessuno sia lecito abbracciare una astinenza fuori posto, ma conducano una vita comune costantemente.

XX
Qualità e stile del vestito
Comandiamo che i vestiti siano sempre di un unico colore, ad esempio bianchi, o neri, o, per così dire, bigi. A tutti i soldati professi in inverno e in estate, se è possibile, concediamo vesti bianche, cosicché coloro che avranno posposto una vita tenebrosa, riconoscano di doversi riconciliare con il loro Creatore, mediante una vita trasparente e bianca. Che cosa di bianco, se non l'integra castità? La castità è sicurezza della mente, e sanità del corpo. Infatti ogni militare, se non avrà preservato nella castità, non potrà raggiungere la pace perpetua e vedere Dio; come attesta l'apostolo San Paolo: Seguiamo la pace con tutti e la castità, senza cui nessuno vedrà il Signore. Ma perché una sia di questo stile deve essere privo della nota arroganza e del superfluo; comandiamo a tutti che abbiano tali cose affinché ciascuno da solo sia capace senza clamore di vestirsi e svestirsi, mettersi i calzari e levarseli. Il procuratore di questo ministero con vigile cura sia attento nell'evitare questo, coloro che ricevono abiti nuovi, restituiscano subito i vecchi, da riporre in camera, o dove il fratello ci spetta il compito avesse deciso, perché possano servire agli scudieri o agli aggregati, oppure ai poveri.

XXI
I servi non portino vesti bianche, cioè pallii
Decisamente disapproviamo quanto era nella casa di Dio e del tempio dei suoi soldati, senza discrezione e decisione del comune capitolo, e comandiamo, che venga radicalmente eliminato quasi fosse un vizio proprio. I servi e gli scudieri portavano una volta vestiti bianchi, donde derivavano danni. Sorsero infatti in zone ultra montane alcuni falsi fratelli, sposati, ed altri, che dissero di appartenere al Tempio, mentre sono del mondo. Costoro procurarono tante ingiurie e tanti danni all'ordine militare, e gli aggregati presuntuosi come professi insuperbendo fecero nascere numerosi scandali. Portino quindi sempre vestiti neri: nel caso in cui questi non possano essere trovati, abbiano quelli che si possano trovare nella provincia in cui abitano, o quanto può essere avvicinato alla più semplice di un unico colore, cioè bigio.

XXII
I soldati professi portino solo vestiti bianchi
A nessuno è concesso portare tuniche candide, o avere pallii bianchi, se non ai nominati soldati.

XXIII
Si usino solo pelli di agnelli
Abbiamo deciso di comune accordo, che nessun fratello professo abbia pelli di lunga durata perenne o pelliccia o qualcosa di simile, e che serva al corpo, anche per coprirlo se non di agnelli o arieti.

XXIV
I vecchi vestiti siano dati agli scudieri
Il procuratore o datore dei vestiti con ogni attenzione dia i vecchi abiti sempre agli scudieri e agli aggregati, e talvolta ai poveri, agendo con fedeltà ed equità.

XXV
Chi brama le cose migliori abbia le peggiori
Se un fratello professo, o perché gli è dovuto o perché mosso da superbia volesse abiti belli o ottimi, meriterebbe per tale presunzione senza dubbio quelli più umili.

XXVI
Sia rispettata la qualità e la quantità dei vestiti
E' necessario osservare la quantità secondo la grandezza dei corpi e la larghezza dei vestiti: colui che consegna gli abiti sia in questo attento.

XXVII
Colui che consegna i vestiti conservi innanzitutto l'uguaglianza
Il procuratore con fraterno intuito consideri la lunghezza, come sopra fu detto, con la stessa attenzione, perché l'occhio dei sussurratori o dei calunniatori non presuma di notare alcunché: e in tutte queste cose, umilmente mediti la ricompensa di Dio.

XXVIII
L'inutilità dei capelli
Tutti i fratelli, soprattutto i professi, è bene che portino capelli in modo che possano essere considerati regolari davanti e dietro e ordinati; e nella barba e nei baffi si osservi senza discussione la stessa regola, perché non si mostri o superficialità o il vizio della frivolezza.

XXIX
Circa gli speroni e le collane
Chiaramente gli speroni e le collane sono una questione gentilizia. E poiché questo è riconosciuto abominevole da tutti, proibiamo e rifiutiamo l'autorizzazione a possederli, anzi vogliamo che non ci siano. A coloro che prestano servizio a tempo non permettiamo di avere né speroni, né collane, né capigliatura vanitosa, né esagerata lunghezza di vestiti, anzi del tutto proibiamo. A coloro che servono al sommo creatore è sommamente necessaria la mondezza interna ed esterna, come egli stesso attesta, dicendo: Siate mondi, perché Io sono mondo.

XXX
Numero dei cavalli e degli scudieri
A ciascun soldato è lecito possedere tre cavalli, poiché l'insigne povertà della casa di Dio e del Tempio di Salomone non permette di aumentare oltre, se non per licenza del maestro.

XXXI
Nessuno ferisca uno scudiero che serve gratuitamente
Concediamo ai singoli militari per la stessa ragione un solo scudiero. Ma se gratuitamente e caritatevolmente quello scudiero appartiene a un soldato, a costui non è lecito flagellarlo, e neppure percuoterlo per qualsiasi colpa.

XXXII
In che modo siano ricevuti coloro che restano a tempo
Comandiamo a tutti i soldati che desiderano servire a tempo a Gesù Cristo con purezza d'animo nella stessa casa, di comprare fedelmente cavalli idonei in questo impegno quotidiano, e armi e quanto è necessario. Abbiamo anche giudicato, tutto considerato, che sia cosa buona e utile valutare i cavalli. Si conservi perciò il prezzo per iscritto perché non venga dimenticato: quanto sarà necessario al soldato, o ai suoi cavalli, o allo scudiero, aggiunti i ferri dei cavalli secondo la facoltà della casa, sia acquistato dalla stessa casa con fraterna carità. Se frattanto il soldato per qualche evento perdesse i suoi cavalli in questo servizio; il maestro per quanto può la casa, ne procurerà altri. Al giungere del momento di rimpatriare, lo stesso soldato conceda la metà del prezzo per amore divino, e se a lui piace, riceva l'altra dalla comunità dei fratelli.

XXXIII
Nessuno agisca secondo la propria volontà
E' conveniente a questi soldati, che stimano niente di più caro loro di Cristo, che per il servizio, secondo il quale sono professi, e per la gloria della somma beatitudine, o il timore della geenna, prestino continuamente obbedienza al maestro. Occorre quindi che immediatamente, se qualcosa sia stato comandato dal maestro, o da colui al quale è stato dato mandato dal maestro, senza indugio, come fosse divinamente comandato, nel fare non conoscano indugio. Di questi tali la stessa verità dice: Per l'ascolto dell'orecchio mi ha obbedito.

XXXIV
Se è lecito andare senza comando del maestro in un luogo isolato
Scongiuriamo, e fermamente loro comandiamo, che i generosi soldati che hanno rinunciato alla propria volontà, e quanti sono aggregati, senza la licenza del maestro, o di colui cui fu conferito, di non permettersi di andare in un luogo isolato, eccetto di notte al sepolcro, in armi, e sorvegliare, poiché l'astuto nemico colpisce di giorno e di notte, o a quei luoghi che sono inclusi nelle mura della santa città.

XXXV
Se è lecito camminare da soli
Coloro che viaggiano, non ardiscano iniziare un viaggio né di giorno né di notte, senza un custode, cioè un soldato o un fratello professo. Infatti dopo che furono ospitati nella milizia, nessun militare, o scudiero o altro, si permetta di andare per vedere negli atri degli altri militari, o per parlare con qualcuno, senza permesso, come fu detto sopra. Perciò affermiamo saggiamente, che in tale casa ordinata da Dio, nessuno secondo il suo possesso svolga il proprio servizio o riposi; ma secondo il comando del maestro ciascuno agisca così che imiti la sentenza del Signore, con cui ha detto: Non sono venuto a fare la mia volontà, ma di Colui che mi ha mandato.

XXXVI
Nessuno chieda singolarmente ciò che è a lui necessario
Comandiamo, che sia scritta tra le altre come propria questa consuetudine e posta ogni attenzione confermiamo perché si eviti di cercare il vizio. Nessun fratello professo, deve chiedere che gli sia assegnato personalmente un cavallo o una cavalcatura o delle armi. In che modo? Se la sua malattia, o la debolezza dei sui cavalli, o la scarsezza delle sue armi, fosse riconosciuta tale, che avanzare così sia un danno comune: si rechi dal maestro, o da colui chi è dovuto il ministero dopo il maestro, e gli esponga la causa con sincerità e purezza: infatti la cosa va risolta nella decisione del maestro, o del suo procuratore.

XXXVII
I morsi e gli speroni
Non vogliamo che mai oro o argento che sono ricchezze particolari appaiano nei morsi o nei pettorali, né gli speroni, o nei finimenti, né sia lecito ad alcun fratello professo acquistarli. Se per caso tali vecchi strumenti fossero stati dati in dono, l'oro o l'argento siano colorati in modo che il colore o il decoro non appaia arroganza in mezzo agli altri. Se fossero stati dati nuovi, il maestro faccia ciò che vuole di queste cose.

XXXVIII
Sulle aste e sugli scudi non venga posta una copertura
Non si abbia una copertura sopra gli scudi e le aste, perché secondo noi questo non è proficuo, anzi dannoso.

XXXIX
L'autorizzazione del maestro
Al maestro è lecito dare cavalli o armi a chiunque, o a chi ritiene opportuno qualunque altra cosa.

XL
Sacco e baule
Non sono permessi sacco e baule con il lucchetto: così siano presentati, perché non si posseggano senza il permesso del maestro, o di colui a cui furono affidati i compiti della casa e i compiti in sua vece. Da questa norma sono esclusi i procuratori e coloro che abitano in provincie diverse, e neppure è inteso lo stesso maestro.

XLI
L'autorizzazione scritta
In nessun modo a un fratello sia lecito ricevere, o dare, dai propri parenti, né qualsiasi uomo, né dall'uno all'altro, senza il permesso del maestro o del procuratore. Dopo che un fratello avrà avuto licenza, alla presenza del maestro, se così a lui piace, siano registrati. Nel caso che dai parenti sia indirizzato a lui qualcosa, non si permetta riceverla, se prima non è stato segnalato al maestro. In questa norma non sono inclusi il maestro e i procuratori della casa.

XLII
La confessione delle proprie colpe
Poiché ogni parola oziosa si sa che genera il peccato, che cosa essi diranno ostentatamente riguardo alle proprie colpe davanti al severo giudice. Dice bene il profeta che se occorre astenersi dai buoni discorsi per il silenzio, quanto più occorre astenersi dalle cattive parole per la penda del peccato. Vietiamo quindi che un fratello professo osi ricordare con un suo fratello, o con qualcun altro, per meglio dire, le stoltezze, che nel secolo nel servizio militare compì in modo enorme, e i piaceri della carne con sciaguratissime donne, o qualsiasi altra cosa: e se per caso avesse sentito qualcuno che riferisce tali cose, lo faccia tacere, o appena può si allontani per obbedienza, e al venditore d'olio non offra il cuore.

XLIII
Questua e accettazione
Se a un fratello fosse stata data qualcosa senza averla chiesta, la consegni al maestro o all'economo: se un altro suo amico o parente non volesse che fosse usata se non da lui, questa non riceva fino a quando abbia il permesso del maestro. Colui al quale sarà stata data la cosa, non dispiaccia che venga data ad un altro: sappia per certo, che se si arrabbiasse per questo, agisce contro Dio. Nella sopraddetta regola non sono contenuti gli amministratori ai quali in modo speciale è affidato e concesso il ministero riguardo al sacco e al baule.

XLIV
I sacchi per il cibo sui cavalli
E' utile a tutti che questo ordine da noi stabilito sia rispettato senza eccezioni. Nessun fratello presuma di confezionare sacchi per il cibo di lino o di lana, preparati con troppa cura: non ne abbia se non di panno grezzo.

XLV
Nessuno osi cambiare o domandare
Nessuno presuma di cambiare le sue cose, fratello con il fratello, senza l'autorizzazione del maestro, e chiedere qualcosa, se non fratello al fratello, purché la cosa sia piccola, vile, non grande.

XLVI
Nessuno catturi un uccello con un uccello, neppure proceda con il richiamo
Noi giudichiamo con sentenza comune che nessuno osi catturare un uccello con un uccello. Non conviene infatti aderire alla religione conservando i piaceri mondani, ma ascoltare volentieri i comandamenti del Signore, frequentemente applicarsi alle preghiere, confessare a Dio i propri peccati con lacrime e gemito quotidianamente nella preghiera. Nessun fratello professo per questa causa principale presuma di accompagnarsi con un uomo che opera con il falco o con qualche altro uccello.

XLVII
Nessuno colpisca una fiera con l'arco o la balestra
E' conveniente camminare in atteggiamento pio, con semplicità, senza ridere, umilmente, non pronunciando molte parole, ma ragionando, e non con voce troppo elevata. Specialmente imponiamo e comandiamo ad ogni fratello professo di non osare entrare in un bosco con arco o balestra o lanciare dardi: non vada con colui che fece tali cose se non per poterlo salvare da uno sciagurato pagano: né osi gridare con un cane né garrire; né spinga il suo cavallo per la bramosia di catturare la fiera.

XLVIII
Il leone sia sempre colpito
Infatti è certo, che a voi fu specialmente affidato il compito di offrire la vita per i vostri fratelli, e eliminare dalla terra gli increduli, che sempre minacciano il Figlio della Vergine. Del leone questo leggiamo, perché egli circuisce cercando chi divorare, e le sue mani contro tutti, e le mani di tutti contro lui.

XLIX
Ascoltate il giudizio riguardo a quanto è chiesto su di voi
Sappiamo che i persecutori della Santa Chiesa sono senza numero, e si affrettano incessantemente e sempre più crudelmente ad inquietare coloro che non amano le contese. In questo si tenga la sentenza del Concilio fatta con serena considerazione, che se qualcuno nelle parti della regione orientale, o in qualunque altro luogo chiedesse qualcosa su di voi, a voi comandiamo di ascoltare il giudizio emesso da giudici fedeli e amanti del vero; e ciò che sarà giusto, comandiamo che voi compiate senza esitazione.

L
In ogni cosa sia tenuta questa regola
Questa stessa regola comandiamo che venga tenuta per sempre in tutte le cose che immeritatamente sono state a voli tolte.

LI
Quando è lecito a tutti i militari professi avere una terra e degli uomini
Crediamo che per divina provvidenza nei santi luoghi prese inizio da voi questo genere nuovo di religione che cioè alla religione sia unita la milizia e così per la religione proceda armata mediante la milizia, o senza colpa colpisca il nemico. Giustamente quindi giudichiamo, poiché siamo chiamati soldati del Tempio che voi stessi per l'insigne e speciale merito di probità abbiate casa, terra, uomini, contadini e giustamente li governate: e a voi è dovuto in modo particolare quanto stabilito.

LII
Ai malati sia dedicata un'attenzione particolare
Ai fratelli che stanno male occorre prestare una cura attentissima, come si servisse a Cristo in loro: il detto evangelico, sono stato infermo e mi visitaste sia attentamente ricordato. Costoro vanno sopportati pazientemente, perché mediante loro senza dubbio si acquista una retribuzione superiore.

LIII
Agli infermi sia sempre dato ciò che è necessario
Agli assistenti degli infermi comandiamo con ogni osservanza e attenta cura, che quanto è necessario per le diverse malattie, fedelmente e diligentemente, secondo le possibilità della casa sia loro amministrato, ad esempio, carne e volatili ed altro, fino quando siano restituiti alla sanità.

LIV
Nessuno provochi l'altro all'ira
Massima attenzione va posta perché qualcuno non presuma di provocare l'altro all'ira: infatti la somma clemenza della vicina divina fraternità congiunse tanto i poveri quanto i potenti.

LV
In che modo siano accolti i fratelli sposati
Permettiamo a voi di accogliere i fratelli sposati in questo modo, se chiedono il beneficio e la partecipazione della vostra fraternità, entrambi concedano una parte della loro sostanza e quanto avessero ad acquistare lo diano all'unità del comune capitolo dopo la loro morte, e frattanto conducano una vita onesta, e si studino di agire bene verso i fratelli, ma non portino la veste candida e il mantello bianco. Se il marito fosse morto prima, lasci la sua parte ai fratelli: la moglie ricavi il sostegno della vita dall'altra parte. Consideriamo infatti questo ingiusto che fratelli di questo tipo risiedano nella stessa casa dei fratelli che hanno promesso la castità a Dio.

LVI
Non si abbiano più sorelle
Riunire ancora sorelle è pericoloso: l'antico nemico a causa della compagnia femminile cacciò molti dalla retta via del paradiso. Perciò, fratelli carissimi, perché sempre tra voi sia visibile il fiore dell'integrità, non è lecito mantenere ancora questa consuetudine.

LVII
I fratelli del Tempio non abbiano parte con gli scomunicati
Questo, fratelli è da evitare e da temere, che qualcuno dei soldati di Cristo in qualche modo si unisca ad una persona scomunicata singolarmente e pubblicamente, o presuma di ricevere le sue cose, perché la scomunica non sia simile al marantha (vieni Signore). Ma se fosse soltanto interdetto, non sarà fuori posto avere parte con lui, e ricevere caritatevolmente le sue cose.

LVIII
In che modo vanno ricevuti i soldati secolari
Se un soldato dalla massa della perdizione, o un altro secolare, volendo rinunziare al mondo, volesse scegliere la nostra comunione e vita, non si dia a lui subito l'assenso, ma secondo la parola di Paolo, provate gli spiriti se sono da Dio così a lui sia concesso l'ingresso. Si legga dunque la Regola in sua presenza: e se costui ottempererà diligentemente ai comandi di questa esimia Regola, allora se al maestro e ai fratelli sarà piaciuto riceverlo, convocati i fratelli esponga con purezza d'animo a tutti il suo desiderio e la sua richiesta. In seguito il termine della prova dipenda in tutto dalla considerazione e dalla decisione del maestro, secondo l'onestà di vita del richiedente.

LIX
Non siano chiamati tutti i fratelli al consiglio privato
Comandiamo che non sempre siano convocati al consiglio tutti i fratelli, ma solo quelli che il maestro avrà ritenuto idonei e provvidenziali per il consiglio. Quando volesse trattare le questioni maggiori, quale dare la terra comune, o discutere dell'Ordine stesso, o ricevere un fratello: allora è opportuno convocare tutta la congregazione, se così ritiene il maestro; udito il parere di tutto il capitolo, quanto di meglio e di più utile il maestro avrà ritenuto opportuno, questo si faccia.

LX
Devono pregare in silenzio
Comandiamo con parere concorde che, come avrà richiesto la propensione dell'anima e del corpo, i fratelli preghino in piedi o seduti: tuttavia con massima riverenza con semplicità, senza chiasso, perché uno non disturbi l'altro.

XI
Ricevere la fede dei serventi
Abbiamo saputo che molti da diverse province, tanto aggregati, quanto scudieri desiderano vincolarsi nella nostra casa a tempo con animo fervoroso per la salvezza delle anime. E' utile che riceviate la fede loro, affinché per caso l'antico nemico non intimi loro nel servizio di Dio alcunché furtivamente o indecentemente, o li distolga improvvisamente dal buon proposito.

LXII
I fanciulli, fin quando sono piccoli, non siano ricevuti tra i fratelli del Tempio
Quantunque la Regola dei Santi Padri permetta di avere dei fanciulli in una congregazione, noi non riteniamo di dover caricare voi di tale peso. Chi volesse dare in perpetuo suo figlio, o un suo congiunto, nella religione militare: lo nutra fino agli anni, in cui virilmente con mano armata possa eliminare dalla Terra Santa i nemici di Cristo: in seguito secondo la Regola il padre o i genitori lo pongano in mezzo ai fratelli, e rendano nota la sua richiesta. E' meglio nella fanciullezza non giurare, piuttosto che diventato uomo ritirarsi in modo clamoroso.

LXIII
Sempre i vecchi siano venerati
E' bene che i vecchi con pia considerazione, secondo la debolezza delle forze siano sopportati e diligentemente onorati: i nessun modo si usi severità in quanto la tolleranza è necessaria per il corpo, salva tuttavia l'autorità della Regola.

LXIV
I fratelli che partono per diverse province
I fratelli che si incamminano per diverse province, per quanto lo permettano le forze, si impegnino a osservare la Regola nel cibo e nella bevanda e nelle altre cose, e vivano in modo irreprensibile, perché abbiano buona testimonianza da coloro che stanno fuori: non macchino il proposito di religione né con parola né con atto, ma soprattutto a coloro, con i quali si sono incontrati, offrano esempio e sostanza di sapienza e di buone opere. Colui presso il quale avranno deciso di alloggiare, abbia buona fama: e, se è possibile, la casa dell'ospite in quella notte non manchi della candela, affinché il nemico tenebroso non procuri la morte, Dio non voglia. Quando avranno sentito di riunire soldati non scomunicati, diciamo che colà devono andare non preoccupandosi di una utilità temporale, quanto piuttosto della salvezza eterna delle loro anime. Ai fratelli diretti nelle zone aldilà del mare con la speranza di essere trasportati, raccomandiamo di ricevere con questa convenzione coloro che avessero voluto unirsi in perpetuo all'Ordine militare: entrambi si presentino al Vescovo di quella provincia e il presule ascolti la volontà di colui che chiede. Ascoltata la richiesta, il fratello lo invii al maestro e ai fratelli che si trovano nel Tempio che è in Gerusalemme: e se la sua vita è onesta e degna di tale appartenenza, misericordiosamente sia accolto, se questo sembra bene al maestro e ai fratelli. Se nel frattempo morisse, a causa del lavoro e della fatica, come a un fratello, a lui sia riconosciuto tutto il beneficio e la fraternità dei poveri e dei commilitoni di Cristo.

LXV
A tutti sia distribuito in modo uguale il vitto
Riteniamo anche che questo in modo congruo e ragionevole sia rispettato, che a tutti i fratelli professi sia dato cibo in eguale misura secondo la possibilità del luogo: non è infatti utile l'accezione delle persone, ma è necessario considerare le indisposizioni.

LXVI
I soldati abbiano le decime del Tempio
Crediamo che avendo abbandonato le ricchezze a voi donate abbiate ad essere soggetti alla spontanea povertà, per cui in questo modo abbiamo dimostrato in quale modo spettino a voi che vivete in vita comune le decime. Se il Vescovo della chiesa, al quale è dovuta giustamente la decima, avrà voluto darla a voi caritatevolmente: deve dare a voi le decime che allora la Chiesa sembra possedere con il consenso del capitolo comune. Se un laico dovesse impossessarsi di essa (decima) o sottrarla dal suo patrimonio in modo condannabile, e confessando la propria colpa avrà voluto lasciare a voi la stessa: secondo la discrezione di colui che presiede questo può essere fatto, senza il consenso del capitolo.

LXVII
Le colpe leggere e gravi
Se un fratello avrà sbagliato in modo lieve nel parlare, nell'agire o altrimenti, egli stesso confessi al maestro il suo peccato con l'impegno della soddisfazione. Per le cose lievi, se non esiste una consuetudine, ci sia una lieve penitenza. Nel caso in cui tacesse e la colpa fosse conosciuta attraverso un altro, sia sottoposto a una disciplina e ad una riparazione maggiore e più evidente.
Se la colpa sarà grave, si allontani dalla familiarità dei fratelli, né mangi con loro alla stessa mensa, ma da solo assuma il pasto. Il tutto dipenda dalla decisione e dall'indicazione del maestro, affinché sia salvo nel giorno del giudizio.

LXVIII
Per quale colpa il fratello non sia più accolto
Soprattutto occorre provvedere che, nessun fratello, sia potente o impotente, forte o debole, voglia esaltarsi e poco a poco insuperbire, difendere la propria colpa, possa rimanere indisciplinato: ma, se non avrà voluto correggersi, a lui venga data una correzione più severa. Che se non avrà voluto correggersi con pie ammonizioni e per le preghiere a lui innalzate, ma si sarà innalzato sempre più nella superbia: allora secondo l'apostolo, sia sradicato dal pio gregge: togliete il male da voi: è necessario che la pecora malata sia allontanata dalla società dei fratelli fedeli. Inoltre il maestro che deve tenere in mano il bastone e la verga (cioè il bastone, con cui sostenga le debolezze delle altre forze, la verga con cui colpisca con lo zelo della rettitudine i vizi di coloro che vengono meno) con il consiglio del Patriarca e con una considerazione spirituale sul da farsi affinché, come dice il beato Massimo, la più libera clemenza non approvi l'arroganza del peccatore, né l'esagerata severità non richiami dall'errore chi sbaglia.

LXIX
Dalla solennità di Pasqua fino a Tutti i Santi si possa soltanto portare una camicia di lino
Per il grande caldo della regione orientale, consideriamo compassionevolmente, che dalla festa di Pasqua fino alla solennità di Tutti i Santi, si dia a ciascuno una unica camicia di lino, non per il dovuto, ma per sola grazia, e questo dico per chi vorrà usufruire di essa. Negli altri tempi generalmente tutti portino camicie di lana.

LXX
Quanti e quali panni siano necessari nel letto
Per coloro che dormono nei singoli letti riteniamo di comune consiglio, se non sopravviene qualche grave causa o necessità: ciascuno abbia biancheria secondo la discreta assegnazione del maestro: crediamo infatti che a ciascuno sia sufficiente un pagliericcio, un cuscino e una coperta. Colui che manca di uno di questi, prenda una stuoia, e in ogni tempo sarà lecito usufruire di una coperta di lino, cioè un panno: dormano vestiti con la camicia, e sempre dormano indossando gli stivali. Mentre i fratelli dormono, fino al mattino non manchi la lucerna.

LXXI
Va evitata la mormorazione
Comandiamo a voi, per divino ammonimento di evitare, quasi peste da fuggire, le emulazioni, il livore, le mormorazioni, il sussurrare, le detrazioni. Si impegni ciascuno con animo vigile, a non incolpare o riprendere il suo fratello ma ricordi tra se la parola dell'apostolo: non essere un accusatore, né diffamatore del popolo. Quando qualcuno avrà conosciuto che un fratello ha peccato in qualcosa, in pace e fraterna pietà, secondo il precetto del Signore, lo corregga tra sé e lui solo: e se non lo avrà ascoltato prenda un altro fratello: ma se avrà disprezzato entrambi, in riunione davanti al capitolo tutto sia rimproverato. Soffrono di grave cecità, coloro che calunniano gli altri; sono di grande infelicità coloro che non si guardano dal livore: da qui sono immersi nell'antica iniquità dell'astuto nemico.

LXXII
Si evitino i baci di tutte le donne
Riteniamo pericoloso per ogni religioso fissare lungamente il volto delle donne: perciò un fratello non osi baciare né una vedova, né una nubile, né la madre, né la sorella, né un'amica, né nessuna altra donna. Fugga dunque la milizia di Cristo i baci femminili, attraverso i quali gli uomini spesso sono in pericolo: così con coscienza pura e vita libera può perennemente conversare al cospetto del Signore.

San Bernardo di Clairvaux e
la sua visione dei Templari

di Goffredo Viti (+) , Ordine Cistercense

Questo breve intervento vuole rimarcare, senza dire nulla di nuovo, quali furono i rapporti tra san Bernardo e l’Ordine dei Templari nei primi decenni di vita.
Le informazioni che qui riporto hanno come riferimento bibliografico i seguenti testi:
Guy de Valous, Quelques observations sur la toute primitive observance des Templiers et la Regula Pauperum commilitonum Christi Templi Salomonici, in Mélanges Saint Bernard, XXIV congrès de l’association bourguignonne des sociètes savantes, Dijon 1953, pp. 32-40;
Patrice Cousin, Les débuts de l’Ordre des Templiers et saint Bernard, in Ibidem, pp. 41-52;
Opere di san Bernardo, a cura di Ferruccio Gastaldelli, vol. I, Milano 1984, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae. Per i cavalieri del Tempio. Elogio della nuova milizia, introduzione, traduzione e note di Cosimo Damiano Fonseca, pp. 425-483;
Opere di san Bernardo, a cura di Ferruccio Gastaldelli, voll. VI/1 e 2, Milano 1986 e 1987, Lettere, parte 1 Lettere. 1-210 e 211-548;
Opere di san Bernardo, a cura di Ferruccio Gastaldelli, vol. I, Milano 1984, De consideratione ad Eugenium Papam. La Considerazione a Eugenio papa, Introduzione di Pietro Zerbi, Traduzione e note di Ferruccio Gastaldelli, pp. 725-939;
Georges Bordonove, La vita quotidiana dei Templari nel XIII secolo, Milano 1989;
Aa. Vv., I Templari. Una vita tra riti cavallereschi e fedeltà alla chiesa. Atti del primo convegno «I Templari e san Bernardo di Chiaravalle», Certosa di Firenze, 23 -24 ottobre 1992, Certosa di Firenze 1995.

I fatti dal 1119 al 1127
I primi dati riguardanti la storia dei templari prima del 1128 ci sono offerti da Guglielmo di Tiro[1]. Egli ci riferisce che verso la fine del 1119 o l’inizio del 1120 il cavaliere Hugo di Payens decise di unirsi ad altri sette pii cavalieri, giunti a Gerusalemme come lui per combattere a favore di Cristo e formare una comunità religiosa impegnata alla difesa dei pellegrini e precisamente con lo scopo di garantire loro sicurezza lungo il viaggio ed il passaggio tranquillo dei punti d’acqua contro le incursioni dei ladroni e le insidie dei briganti[2]. Di comune accordo essi prestarono obbedienza al patriarca di Gerusalemme Garimond ed emisero nelle sue mani i voti religiosi di castità, obbedienza e povertà e si impegnarono a vivere secondo la Regola di Sant’Agostino[3]. Il re Baldovino concesse loro parte del Tempio detto comunemente il palazzo di Salomone[4] I compagni di Hugo di Payens furono: Goffroy de Saint-Omer, Goffroy Bisson, Roland, Payen de Montdidier, Archambaud de Saint Amand, André de Montbard e Gonthemar.
Intorno al 1125 il Conte Ugo di Champagne si reca per la terza volta in Terra Santa e diventa templare. Nella lettera 31[5] san Bernardo si congratula con Ugo per aver abbracciato la milizia sacra e ricorda i benefici concessi a Clairvaux:
«Se per grazia di Dio sei diventato da conte soldato e povero da ricco che eri, in questo mi congratulo con te, com’è giusto, e in te glorifico Dio, sapendo che «questo è mutamento della destra dell’Eccelso… Potrei scordare l’antico affetto e i benefici che hai prodigati con tanta larghezza alla nostra casa?… Quanto a me, e per quanto è in me, io non essendo affatto ingrato, tengo conficcato nella memoria il ricordo della tua munificenza…».
Prima del 1128 i Templari non avevano una propria regola scritta. Comunque la tradizione orale, scrupolosamente conservata, permetterà ai rappresentati dell’Ordine di fare una esatta e dettagliata relazione ai padri del concilio riunitosi a Troyes l’11 gennaio 1128.

I fatti del 1128
Il 1128 fu caratterizzato principalmente dalla celebrazione del concilio di Troyes. L’opera del concilio, per quanto riguarda l’approvazione dell’Ordine dei Templari, non fu rivoluzionaria, rispetto all’esperienza vissuta nel decennio precedente, e lo stesso san Bernardo e gli stessi padri del Concilio tennero in debita considerazione l’esistenza degli usi praticati anteriormente al 1128. Il prologo della regola approvata a Troyes ci offre delle espressioni, dovute ai redattori, che ci chiarisce molto bene il contesto e lo spirito dello stesso concilio:
«Deo duce in unum convenimus, et modum et observantiam equestris oridinis per singula capitula ex ore ipsius magistri Hugonis audire meruimus… quod nobis videbatur bonum et utile, collaudavimus, quod vero nobis videbatur absurdum vitavimus»[6].
Una attenta lettura della Regola, approvata al Concilio di Troyes, ci potrebbe permette di controllare quali siano i punti che si riferiscono maggiormente alla Regola di sant’Agostino e quali derivanti dalla Regola di san Benedetto.

I templari nell’Epistolario di san Bernardo
Oltre la lettera 31 del 1125 e di cui già abbiamo accennato, tra le Lettere di san Bernardo ne troviamo altre otto che in qualche modo si riferiscono ai Templari.
Lettera 175. Indirizzata nel 1130 a Guglielmo di Messines, patriarca di Gerusalemme. Il patriarca gli aveva scritto diverse lettere e, finalmente Bernardo si decide a rispondergli in modo molto amichevole e gli raccomanda i cavalieri templari:
«…Vi prego di dirigerei vostri occhi sui cavalieri del Tempio e di aprire le viscere della vostra così grande pietà a così valorosi difensori della Chiesa. Sarà gradito a Dio e piacevole agli uomini che voi manifestiate il vostro favore a chi ha offerto la propria vita a difesa dei fratelli»[7].

Lettera 206. scritta probabilmente intorno al 1140 e indirizzata alla Regina di Gerusalemme, Melisenda. In questa lettera, Bernardo raccomanda alla Regina un proprio consanguineo:
«Gli uomini hanno udito che ho presso di voi un tantino di benevolenza, e molti che sono in procinto di partire per Gerusalemme chiedono di essere raccomandati da me a vostra Eccellenza. Fra questi vi è questo giovane mio consanguineo, un giovane, come mi dicono, molto valoroso e di buon carattere…»[8].

Lettera 288. Inidirizzata nel 1153 a suo zio Andrea di Monrbard, fratello della madre di Bernardo Aleth. Andrea, attraverso il matrimonio del fratello Gauderico si imparentò con la famiglia di Ugo di Payens, fondatore dei Templari. Sebbene viene ricordato da Guglielmo di Tiro tra i primi compagni di Ugo di Payens sembra che divenne Templare in Terra Santa solo intorno al 1129 e salì i gradi gerarchici fino a diventare Gran Maestro verso il 1153. Avendo saputo che Bernardo era gravemente malato, scrisse al nipote per manifestargli l’intenzione di venirlo a trovare. La lettera 288 è la risposta di Bernardo alle premure di Andrea:
«…Che abbondanza ricava l’uomo “dall’immensità del lavoro con cui si affatica sotto il sole”? Perciò eleviamoci sopra il sole e la nostra considerazione riguardi i cieli, facendo ascendere in anticipo la nostra mente là dove ci troveremo in seguito col corpo. Lì, mio Andrea, lì è il frutto della tua fatica: lì sarà la tua ricompensa. Tu militi sotto il sole ma a servizio di chi s’erge sopra il sole. Pur militando qui, aspettiamo la ricompensa di lassù. La retribuzione della nostra milizia non proviene dalla terra, non si trova qui giù: “di lontano, dagli estremi confini giunge il premio”. Sotto il sole c’è povertà; l’abbondanza è al di là del sole… Da un lato desidero che tu venga, dall’altro lo temo»[9]
(Bernardo teme che l’assenza di Andrea «maxima columna» del territorio di Gerusalemme, possa risultare dannosa per i cristiani della Palestina esposti agli attacchi dei musulmani).

Lettera 289. Scritta nel 1153 alla Regina Melisenda esortandola sul modo di comportarsi ora che il marito è morto, sostenendo la parte di vedova virtuosa di fronte a Dio e di Regina di fronte agli uomini. Ma non manca un passaggio riservato ai Templari:
«…Per fortuna è intervenuto Andrea, mio carissimo zio materno, al quale non posso non credere, che con un suo scritto mi ha comunicato notizie migliori, che cioè tu ti comporti in pace e con mansuetudine, che avvalendoti dei più saggi governi rettamente te e il tuo stato, che ami e consideri tuoi familiari i fratelli del Tempio, e che cerchi di porre destramente e provvidamente rimedio ai pericoli che incombono sulla tua terra, secondo la saggezza fornitati da Dio e valendoti dei migliori consigli ed aiuti»[10].
Lettera 354. Lettera scritta tra il 1143-1144, sempre alla Regina Melisenda, figlia del Re Baldovino e moglie di Folco d’Anjou. Essendo morto il marito, la consiglia sul modo di comportarsi nella reggenza del figlio. Non tocca il mondo templare[11].

Lettera 355. Scritta nel 1141, ancora alla Regina Melisenda per raccomandarle alcuni monaci premonstratensi che si sono recati in pellegrinaggio a Gerusalemme. Non parla di Templari.
«…Se non erro, li troverete (questi monaci di Premontré) uomini pieni di saggezza, “accesi nello spirito, pazienti nelle tribolazioni”? altamente capaci nelle opere e nelle parole. Si sono rivestiti dell’armatura di Dio e hanno impugnato la spada dello Spirito, che è il verbo di Dio, non per “squarciare carne e sangue, ma contro le malefiche forze spirituali che insidiano il Cielo”»[12].

Lettere 392 e 393. Entrambe scritte nel 1138 e dirette a Rodolfo, patriarca di Antiochia esortandolo a nutrire soprattutto sentimenti di umiltà. Non parlano dei Templari[13].

Liber ad milites templi. De laude novae militiae[14]
L’incontro ufficiale di Bernardo con la Fraternitas dei Cavalieri del Tempio avvenne in occasione del Concilio di Troyes nel 1128 quando, tutto lascia supporre con il suo determinante aiuto, venne redatta la Regola che, nella redazione definitiva, avrebbe trasformato il gruppo spontaneo dei milites, già votato alla pratica penitenziale, in Ordine vero e proprio.
Il trattato fu scritto, dietro insistenza del gran Maestro Ugo di Payens, con ogni probabilità, tra gli anni 1132-1135.

Il nuovo Cavaliere
Il cavaliere templare, secondo il progetto di san Bernardo è un monaco-guerriero, un laico-cavaliere, nello stesso tempo legato al mondo religioso e al mondo profano, inserito a diverso titolo nell’«Ordo monachorum» e in quello «laicorum» rappresenta, sempre secondo la visione di san Bernardo, un nuovo tentativo di trasferire la vita laicale nell’alveo della struttura tipicamente monastica[15].
Fu proprio su questi binomi che si inserì l’intervento di Bernardo preoccupato di dare strutture monastiche ai milites Christi, impegnati nella guerra santa contro gli infedeli, nella vigilanza al Sepolcro di Cristo, nella protezione ai pellegrini in viaggio verso i Luoghi Santi.
A Troyes è visibile la mano dell’abate Bernardo. Al nudus nudum Christum sequi, si aggiungeva per i Cavalieri del Tempio l’altro ideale Christum ducem militum sequi. La sequela Christi diventa un perfetto modello di vita, simile per molti versi a quello delineato da Bernardo per i suoi monaci. Non a caso la concessione del mantello bianco, pur emblematica del suo valore nella proiezione escatologica della scelta templare, accostava l’abito del cavaliere del Tempio a quello del monaco di Cîteaux.
Su questa componente monastica della vocazione templare Bernardo si intratterrà proprio nella stesura del trattato De laude novae militiae. Questo trattato più che espressione dell’orientamento dell’abate di Clairvaux a favore della guerra, rappresenta, invece, il più compiuto tentativo di verifica della originalità della vocazione templare colta nei suoi contenuti ascetici e in consapevole contrapposizione tra i valori della militia Dei e quelli della militia saeculi.
La struttura del De laude novae militiae[16]
Il trattato, dopo la lettera dedicatoria a Ugo di Payens, si articola in tredici capitoli, di cui i primi quattro hanno carattere sistematico in quanto finalizzati a delineare l’istituto della nova militia, quella templare, contrapponendola alla militia profana:

Prologo
I. Esortazione ai cavalieri del Tempio
II. La cavalleria secolare
III. La nuova cavalleria
IV.Il comportamento dei Cavalieri del Tempio
Il quinto capitolo, indugia, in chiave simbolica sul nome della sede dell’Ordine
V. Il Tempio
Gli altri otto capitoli costituiscono un itinerario attraverso i principali Luoghi Santi (Betlemme, Nazareth, il monte degli Ulivi e la valle di Giosafat, il Giordano, il Calvario, il Sepolcro, Betfage, Betania) con lo scopo di consentire un approfondimento dei valori teologico-mistici sottesi sia al nome che agli eventi connessi alle singole località.
Il De laude novae militiae nell’intenzione di Bernardo non è un testo celebrativo, ma esortativo, indirizzato a dare aiuto ai novi milites contro l’hostilem tirannidem, il nemico per eccellenza, di cui gli infedeli sono solo simbolo e figura.
Le caratteristiche di questa nova militia sono individuati da Bernardo su un duplice piano, quello della professio monastica ( combattere contro il demonio e il peccato che si annidano continuamente nell’animo di ciascuno di noi) e quello della lotta contro il nemico terreno, incarnazione del demonio. Emerge così la figura del monaco-cavaliere, cioè di colui che combatte e, vincitore o vinto che sia, è destinato a ricevere il premio: l’alloro del trionfo o la corona del martirio. Queste prospettive non fanno temere al Templare neppure la morte.
A questo punto Bernardo coglie in negativo il significato della saecularis militia, cioè della cavalleria profana, succube del peccato, fautrice della guerra ingiusta, superba, vanitosa, effeminata, iraconda, vanagloriosa, avida. L’insistenza sugli aspetti negativi della saecularis militia apre a Bernardo il passaggio obbligato per mettere in evidenza il carattere della nova militia che non teme di peccare uccidendo il nemico e non ha paura della morte, in quanto ha la certezza della grazia del Signore, anzi considera un segno privilegiato della grazia lo stesso martirio. San Bernardo avverte il bisogno di giustificare l’immagine di un monaco che pur combatteva e uccideva. A questo punto Bernardo, senza non lieve imbarazzo, introduce il concetto del malecidio. l’uccisione del nemico nella guerra contro i pagani non fa che contribuire ad eliminare il male dal mondo, e far trionfare il bene sul male e sul peccato. Bernardo ritiene che sarebbe meglio non uccidere nessuno, nemmeno i pagani, nonostante che in questo periodo non sia proibito dalla morale cristiana il ricorso all’uso legittimo delle armi.
Comunque Bernardo tenta di offrire i connotati caratteristici dei Cavalieri del Tempio, in netta antitesi con quelli della cavalleria profana: la fuga dall’ozio, l’obbedienza totale, la modestia del tratto, la prudenza del combattimento, la continenza, la rinunzia al lusso, specialmente all’opulenza del vestiario e alla ricercatezza degli ornamenti. Tutti questi atteggiamenti costituiscono i tratti più autentici di una profonda e radicale conversio del cavaliere votato alla milizia di Cristo[17].

Il significato della «Peregrinatio» in Bernardo
Lo specifico della «conversatio»[18] templare per Bernardo è la radicale revisione di vita accompagnato da una forte carica soteriologica. Anche in questo caso Bernardo si esprime su un duplice livello, quello della ricerca di Gerusalemme connessa alla «peregrinatio» verso la città Santa e più ancora quello della conquista della grazia di Dio e il possesso del regno dei Cieli attraverso la stessa «peregrinatio» in Terrasanta. Proprio su questo duplice binario si colloca l’itinerario ai Luoghi Santi che Bernardo inculca ai Templari. Questo itinerario, in definitiva, è un pretesto per suggerire un ben altro cammino, quello della continua ricerca di Dio, attraverso alcuni punti nodali della storia della Salvezza.
Betlemme offre suggestive riflessioni sul mistero dell’Incarnazione; Nazareth sull’attesa messianica; il monte degli Ulivi e la valle di Giosafat sulla misericordia e sulla giustizia di Dio; il Giordano sul Battesimo; il Calvario e il Sepolcro sull’evento centrale del cristianesimo costituito dalla Redenzione, dalla Morte e dalla Resurrezione del Signore; Betfage sulla necessità della purificazione attraverso la penitenza; Betania sull’obbedienza.
In questa prospettiva la scelta di far professione templare diventa un vero « Itinerarium mentis et cordis in Deo» alla ricerca di una Gerusalemme interiore, dove, debellato il male, la morte e il peccato, il monaco-cavaliere incontra il Cristo, e questo incontro tende a giustificare la sua intera avventura umana.

Conclusione
Al termine di questa brevissima esposizione ritengo che sia quanto mai utile qualche riflessione conclusiva.
Rispetto all’intera produzione letteraria di Bernardo, lo spazio riservato ai Templari è veramente esiguo. Alcune lettere e un trattato la cui portata storica è forse ancora da analizzare. L’attenzione di Bernardo verso i templari forse va vista e compresa anche nel contesto di un intreccio di rapporti familiari e amichevoli. Lo zio di Bernardo Andrea di Montbard è un del primo nucleo di cavalieri Templari: Il matrimonio del fratello Gauderico lo imparentò con Ugo di Payens, fondatore dei Templari. Infine, il conte Ugo di Champagne, grande benefattore di Clairvaux, ma soprattutto di Trois-Fontaines, nel 1125 diventa anch’egli templare.
Alla vigilia del Concilio di Troyes, celebratosi nel 1128, tra i Templari, che non sono ancora molti, ben tre e di grande spicco, sono legati a Bernardo, due con parentela ed un con profonda amicizia. Ancora non si conosce con esattezza il reale contributo di Bernardo alla causa Templare sia nell’approvazione dell’Ordine che nella stesura della prima Regola, approvata proprio nello stesso Concilio di Troyes. Nonostante la presenza, non casuale, di Bernardo al Concilio, la massima attenzione di Bernardo nei confronti dei Cavalieri del Tempio si riscontra nel trattato Per i Cavalieri del Tempio. Elogio della nuova Milizia. A dispetto del titolo, il trattato non è da considerarsi un testo celebrativo, ma esortativo. Dal testo e dal contesto si ricava che Bernardo ha inteso esporre un ideale di vita. L’analisi degli avvenimenti concreti nella storia di questo Ordine cavalleresco che ha avuto solo 185 anni di vita ci potrà dimostrare fino a che punto l’ideale tracciato da Bernardo sia stato realmente inteso, compreso e tradotto nel vissuto quotidiano.

Certosa di Firenze, 10 maggio 2001
P. Goffredo Prof. Viti, O. Cist.Docente di Storia Medievale e ModernaFacoltà Teologica dell’Italia Centrale



[1] G. di Tiro, Belli sacri historia, libro 12, cap. 7.
[2] Ibidem, «Prima autem eorum professio, quodque eis a domino patriarcha et reliquis episcopis in remissionem peccatorum iniunctum est : ut vias et itinera, maxime ad salutem peregrinorum, contra latronum insidias, pro viribus conservarent».
[3] Ibidem, «In manibus domini patriarchae, Christi servitio se mancipantes, more canonicorum regularium, in castitate et obedientiae, et sine proprio velle perpetuo vivere professi sunt».
[4] Ibidem, «Quibus quoniam neque ecclesia erat neque certum habebant domicilium, rex in palatio suo, quod secus templum Domini ad australem habet, eis ad tempus concessit habitaculum: Canonici vero Templi Domini plateam, quam circa praedictum habebant palatium, ad opus officinarum quibusdam conditionibus concesserunt::: Qui quoniam juxta templum Domini, ut praeduximus, in palatio regio mansionem habent, fratres militiae templi dicuntur». Anche Giacomo di Vitry, nella sua Historia orientalis, Libro I, cap. 65 riferisce in modo analogo: «Est praeterea Hierosolymis templum aliud immensae quantitatis et amplitudinis, a quo fratres militiae templi Templarii nominantur, quod templum Salomonis nuncupantur, forsitan ad distinctionem alterius, quod specialiter templum Domini appellatur»
[5] Opere di san Bernardo, Lettere, ed. F. Gastaldelli, vol. VI/1, Milano 1986, pp. 160-161.
[6] Regula pauperum commilitonum Christi Templi Salomonici, Prefatio, II.
[7] Opere di San Bernardo, Lettere, vol. VI/1, cit., pp. 738-739.
[8] Ibidem, pp. 882-883.
[9] Opere di San Bernardo, Lettere, vol. VI/2, cit., pp. 258-261.
[10] Ibidem, pp. 262-265.
[11] Ibidem, pp. 410-413.
[12] Ibidem, pp. 412- 415.
[13] Ibidem, rispettivamente pp. 508-513 e 512-519.
[14] Opere di san Bernardo, a cura di Ferruccio Gastaldelli, vol. I, Milano 1984, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae. Per i cavalieri del Tempio. Elogio della nuova milizia, introduzione, traduzione e note di Cosimo Damiano Fonseca, pp. 425-483.
[15] Ibidem, pp. 429-431.
[16] Ibidem, pp. 433-434.
[17] Ibidem, p. 433.
[18] Ibidem, pp. 433.434.
Pietre che cantano
Autore: Alessandro MASSOBRIO

Il mistero della cattedrale continua ad affascinare le diverse generazioni. È la bellezza che attira l’uomo verso l’Assoluto. Romaniche e gotiche, sono la testimonianza di un’epoca e di una cultura che mettevano Dio al primo posto.
«Mi rifiuto di affermare che esista, in ultima analisi, un elemento decisivo: io ritengo che tutto sia determinato da tutto e che tutto determini tutto». Queste parole dello storico del Medioevo francese, Georges Duby, che l’architetto Roland Bechmann pone ad epigrafe del suo libro su Le radici delle cattedrali, la dice lunga sulla complessità della spiegazione di un fenomeno. Quello della fioritura nell’Europa occidentale di quelle grandi chiese episcopali, a cui noi moderni siamo soliti attribuire, per l’appunto, il nome di cattedrali. Cattedrale da cathedra, il sedile destinato, in occasione delle solenni festività, ad accogliere il vescovo o il dignitario di primaria importanza. Sopra il capo del quale la volta – spesso, a ogiva – s’impenna come se volesse dissolversi nello spazio, mentre intorno a lui le pareti perdono di spessore, trasformandosi, grazie alle finestre istoriate, in muraglie di luce.Che cosa ne ha prodotto la nascita? Che cosa ne ha determinato la graduale scomparsa? Sono interrogativi che non possono essere soddisfatti da una sola risposta. Noi sappiamo soltanto che tra il 500 e il 1500 d.C. l’Europa conosce due grandi stagioni dell’arte sacra. La romanica prima, la gotica poi. La seconda soprattutto lascia sbalorditi per la perentorietà con cui si afferma, per le soluzioni architettoniche che propone, per la densa simbologia di cui si ammanta. La cattedrale romanica, in fondo, è una ripresa dei motivi della basilica paleocristiana e pagana. La pianta a croce latina prevede una copertura dello spazio interno in cui le spinte centrifughe siano compensate da pesanti armature murarie. Nascono così i contrafforti, che bilanciano il peso della volta cosiddetta a tutto sesto. Le cattedrali romaniche – quella di Modena, di Parma, di Sant’Ambrogio a Milano, considerata l’autentica madre di questo stile architettonico – sono strutture massicce, su cui si alza il campanile come un pilum, una lancia, piantata nel terreno. Paiono macchine da guerra, che si apprestano, sotto i rispettivi gonfaloni, all’assedio di quella cittadella che si chiama Gerusalemme celeste. Alla conquista della quale è chiamata l’intera Chiesa militante. Poi, d’improvviso, tutto questo cambia. A partire dai primi decenni dopo il Mille, nell’Ile-de-France e poi in Borgogna, Germania, Inghilterra, Fiandra e solo più tardi in Italia, il panorama subisce una radicale trasformazione. L’arco ogivale, detto a sesto acuto, imprime alla struttura una spinta verso l’alto. L’illuminazione diventa elemento imprescindibile, tanto è vero che i muri perimetrali subiscono una sorta di “smaterializzazione”, ad opera delle vetrate e del rosone, che troneggia al centro della facciata. La spinta delle volte viene ulteriormente alleggerita dagli archi rampanti, grazie ai quali le forze in gioco vengono suddivise in più componenti. È nata quella che i francesi chiamano art gotique. L’arte della Vergine, di san Bernardo, di Dante. Ma quali ne sono le cause? Come si è detto, sarebbe difficile individuarne una a scapito delle altre. Certamente concorrono condizioni materiali ed economiche non indifferenti: il disboscamento, che riduce il legname delle impalcature; la necessità di collocare queste stesse impalcature sempre più in alto onde evitare il diffondersi di incendi; la crescente impennata dei prezzi della pietra, il cui costo sale vertiginosamente nel corso del trasporto e della quale quindi si impone una economizzazione. Ma c’è anche altro. C’è, per esempio – come già si è detto – il richiamo che la Vergine e il suo culto esercitano sugli uomini dell’XI, XII, XIII secolo. La Madonna che, prima del Mille, si limitava a costituire uno degli elementi del quadro della Redenzione e Incarnazione di Nostro Signore, diviene ora il vertice di una piramide devozionale che, per usare un’espressione paolina, attira a sé tutte le cose. Nella sola Francia, le cattedrali dedicate a Maria si moltiplicano a vista d’occhio, tanto che i devoti le chiamano, tout court, le Notre-Dame. Ce ne sono a Reims, a Digione, a Rouen, a Strasburgo, a Chartres, a Parigi. Un ateo dichiarato come lo scrittore Henry Adams riconosce che Maria esercita su tutto il tardo Medioevo un’enorme forza attrattiva. La gara consiste nell’issare sul pinnacolo più alto della propria cattedrale l’immagine della Madre del Salvatore e senza dubbio non si tratta di una gara economicamente agevole. Alla spesa concorrono offerte di corporazioni e donazioni episcopali, regalie di principi, risparmi di gente povera e dimenticata. Poi, quando tutto è stato predisposto, giungono loro: i Maestri Comacini. Che provengano da Como è soltanto una delle tante spiegazioni etimologiche che tentano di diradarne la leggenda. Certo è che si tratta di corporazioni di lapicidi, di architetti, di capomastri e muratori che in pochi anni, come a Troyes e Montpellier, sono in grado di aggiungere nuove meraviglie a quelle del mondo antico. Sulle loro tecniche Roland Bechmann ha osservato: «Se noi dovessimo costruire le cattedrali dei gotici con i mezzi di cui essi disponevano, non ne saremmo capaci». Da qui l’idea di un sapere esoterico, segretamente tramandato, che farebbe di queste maestranze i detentori di conoscenze ereticali o addirittura gli antenati dei moderni frammassoni. In realtà, la cattedrale è un prodigio di forze in equilibrio statico, che contengono e custodiscono un altrettanto grande prodigio di simboli in equilibrio dinamico. Si riferiva probabilmente alle cattedrali Charles Baudelaire quando parlava di «foreste di simboli dagli occhi familiari». È il simbolo, infatti, il pensiero che si riveste di immagini e l’immagine che rimanda ad altro da sé, a costituire il mistero delle cattedrali del Medioevo. Un mistero che il mondo moderno, deciso a rifiutare all’arte qualsiasi valore che non sia puramente estetico, ha disimparato a decifrare. Limitandosi così ad elevare a Dio case che sembrano destinate a tutto. Meno che a contenere quello stesso Dio cui sono destinate. Un centro polifunzionale L’Italia, paese saldamente legato alla classicità, assiste tardi all’affermazione del gotico. Solo nel secolo XIII qualche grande cattedrale, ad imitazione di quelle francesi, incomincia a svettare in un panorama cittadino caratterizzato dalla linea curva e dall’arco a tutto sesto. Tradizionalmente si ritiene che siano stati prima i cistercensi e poi i francescani, con la Basilica del Santo, ad Assisi, ad introdurre presso di noi lo stile dell’ogiva. In realtà, san Francesco – come afferma lo Speculum perfectionis – prescriveva ai suoi di «rifiutare i templi di grandi dimensioni e riccamente ornati». Fu semmai il suo successore nel governo dell’ordine, san Bonaventura, a imprimere anche all’architettura quel senso di amore per il creato che caratterizza la dottrina del fondatore. Un amore per il creato che si esprime bene in chiese le cui selve di colonne di pietra richiamano quelle vegetali, create dalla mano paterna di Dio. Per tutto il Duecento assistiamo così ad una fioritura di cattedrali gotiche italiane – a Siena, a Firenze, ad Orvieto e poi più tardi anche a Milano, il cui duomo risente comunque già di quello stile flamboyant, fiammeggiante, che si rivela come una più marcata eredità nordica – alla cui realizzazione spesso vengono chiamate maestranze straniere. La cattedrale, anche in Italia, mantiene quella sua caratteristica di ambiente polifunzionale che fa di essa il centro non soltanto religioso della vita cittadina. In primo luogo, naturalmente, il duomo è deputato alle solenni funzioni liturgiche. È lì che il vescovo ha la sua cattedra e lì sono custodite le reliquie che richiamano, anche da assai lontano, la devozione dei fedeli. Ma alla cattedrale non mancano anche funzioni più strettamente civili. Grazie al campanile, da cui si propaga ovunque la gran voce delle campane, essa diffonde messaggi urgenti e chiama la popolazione in assemblea. Ma la centralità della cattedrale diventa anche per i cittadini un comodo spazio di incontro e di scambio. Sotto gli archi a sesto acuto accade di discutere di affari, sotto le finestre istoriate si stipulano contratti e si assume manovalanza. Alcuni documenti attestano addirittura l’utilizzazione del sacro recinto per fiere di cavalli. A conferma di quanto fragili fossero le transenne che, nell’Evo Medio, separavano, per l’appunto, il sacro dal cosiddetto profano. Anche la cultura non viene dimenticata. Spesso il transetto si trasforma, infatti, in palcoscenico per rappresentazioni di soggetto religioso, i cosiddetti misteri. La cattedrale, insomma, svolge le funzioni del foro romano e dell’agorà greca. Un luogo di incontro, un contenitore chiuso, un monumento nel senso che in essa si conserva la memoria della comunità.Ma trascureremmo un elemento estremamente importante se non citassimo un’ulteriore funzione che il tempio viene a svolgere tra i cittadini di un centro urbano medioevale. Esso è anche infatti un potente agente didascalico ed educativo. In secoli nei quali l’analfabetismo è endemico, in cui l’unica forma di istruzione è quella orale, la cattedrale si rivela, con le finestre istoriate, con i frontoni animati da bassorilievi, con i doccioni in pietra, una sorta di muta enciclopedia, che si esprime tramite l’immagine. Non a caso si è parlato a suo proposito di “Bibbia dei poveri”. Attraverso un linguaggio accessibile a tutti, infatti, le storie vetero e neotestamentarie sono rese di pubblica fruizione. E questo, in un tempo, in cui, come si è visto, tempo sacro e tempo profano venivano ad intersecarsi, non era davvero poco.

Bibliografia: Angela Cerinotti, Le cattedrali del mistero, Demetra, 1997.Roland Bechmann, Le radici delle cattedrali, trad. it. di G. Amoretti, Marietti, 1984. Jacques Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo, trad. it. di C. Giardini, Mondadori, 1979. Dominique Macaulay, La cattedrale, trad. it di A. Dolci, Nuove Edizioni Romane, 1981.
da IL TIMONE - Gennaio 2006 (pag. 22-24)
Crociate
Autore: Vittorio MESSORI

Frugando nel mio archivio, trovo una cartellina di appunti che presi in un’estate lontana, in cui decisi di concentrare sulle crociate le letture vacanziere. Volevo trarne una serie di puntate per il “primo” Vivaio, quello su Avvenire, ma poco dopo decisi di sospendere la rubrica e il materiale accumulato restò lì, dimenticato. Con quella ricerca, intendevo rispondere alle richieste di molti lettori che mi ricordavano come alle crociate avessi dedicato qualche cenno qua e là ma non una trattazione organica. Trattazione che non farò neppure qua, ci mancherebbe: mi limiterò a estrarre qualche nota. Per esempio questa di uno specialista, il medievista cattolico Franco Cardini. Il quale, quando Giovanni Paolo II si profondeva nelle ben note scuse, un giorno fu preso da malumore per quello che, a lui storico, sembrava un inaccettabile anacronismo e scrisse: «Volendo essere più papista del papa, potrei aggiungere alla lunga lista di delitti attribuiti ai crociati («fanatici, violenti, intolleranti, ladri, superstiziosi...»), anche un’accusa ulteriore: erano stupidi. Non si spiegherebbe altrimenti che abbiano impiegato tanto tempo per arrivare a Gerusalemme attraverso montagne e deserti, quando avrebbero potuto organizzare un bel ponte aereo, impiegando così poche ore». Continua Cardini: «Credete che sia ammattito o che lo dica per celia? Neppure per idea, sono serissimo. In effetti, se risulta chiaro ad ognuno che i crociati non potevano disporre di aerei, non essendo ancora inventati, non meno grave è l’errore di chi pretende che essi potessero ragionare secondo i parametri di tolleranza e di rispetto della vita umana che l’Occidente ha faticosamente elaboratotra Seicento e Novecento». Per concludere: «Qualcuno ribatterà che tali princìpi ci sono già nei vangeli e che i crociati erano pur cristiani. Senza dubbio: ma la fede cristiana non era affatto, tra XI e XII secolo, compresa e vissuta come lo può essere oggi».Insomma, dice lo storico: «Che Dio mi perdoni. Ma le scuse fatte ai pronipoti a nome degli antenati sarebbero roba da sorridere, se non fossero una violazione dei doveri dello storico (che deve capire e non condannare in modo ingenuamente anacronistico) e una grave ingiustizia per quei credenti che ci hanno preceduti».

È lo stesso Cardini che ha ricordato più volte come l’Occidente moderno abbia contribuito a creare con le sue mani la reazione islamica di cui è ora bersaglio. Nel mondo musulmano, ciò che viene da Europa, da Israele, dall’America è qualificato con odio, invariabilmente, come “crociata”. “Crociati” sono gli israeliani che distruggono case ed elevano muri, “crociati” sono gli americani che bombardano e che occupano, “crociati” sono gli europei, anche se giungono tra loro con organizzazioni umanitarie.In realtà, come ha documentato lo storico fiorentino, la memoria delle spedizioni dei due primi secoli del Mille era praticamente scomparsa tra i musulmani se non, forse, nelle zone del Medio Oriente che avevano visto quel confronto. In effetti, sul piano oggettivo, le crociate – che avevano mobilitato poche migliaia di uomini – erano state un colpo di spillo in un mondo islamico sconfinato, che andava dal Portogallo sino all’Asia Centrale. Venne, però, l’era del colonialismo e i governi europei, a cominciare da quello francese – composti da massoni e funzionanti come bracci politici delle Grandi Logge – si inquietarono perché al seguito delle truppe che conquistavano territori in Africa e in Asia giungevano i missionari. Bisognava neutralizzarli: da qui, il gran daffare per installare anche in quei luoghi la contro-chiesa, la massoneria, nella quale educare i notabili locali. A quelle logge fu affidata la propaganda anticattolica: come prendere sul serio i preti, i cui predecessori avevano organizzato e gestito campagne di guerra contro l’Islam, avevano massacrato bambini, violentato donne, rubati i tesori e tutto questo l’avevano chiamato “crociata”? La memoria di quegli eventi, travestita con i panni della più plateale leggenda nera, fu richiamata in vita, annunciata alle plebi, che spesso non ne avevano mai sentito parlare e sempre più radicalizzata. Il colonialismo finì, ma il seme gettato aveva ormai vigoreggiato: l’odio destinato alla Chiesa ha finito, così, per coinvolgere l’intero Occidente, con i risultati che ora vediamo bene.

La crociata non fu aggressione e non fu guerra santa, fu legittima difesa: è una verità che sembra non si riesca a far passare. Eppure, basterebbe un piccolo atlante storico per capire. Quando Costantinopoli fece pervenire in Europa il suo grido di aiuto, il già estesissimo Impero Romano d’Oriente era ridotto alle dimensioni dell’attuale, piccola Grecia, inferiore alla metà dell’Italia. Dopo la conquista del Medio Oriente e di tutta l’Africa del Nord, ai guerrieri di Allah bastava solo un passo ulteriore ed era finita anche per quell’ultimo lembo di cristianità. Andare in soccorso dei fratelli nella fede era un sacro dovere.Certo, la storia è misteriosa e, ad occhi umani, talvolta crudele. Nate anche come impresa di solidarietà tra cristianità orientale e occidentale, le crociate finirono col creare tra le due comunità un muro che non si è ancora riusciti a sgretolare. Quella Costantinopoli che i turchi non erano riusciti ancora ad espugnare, fu presa e saccheggiata, nel 1204, da un esercito che era partito dall’Europa con le insegne della crociata e che, invece che contro gli infedeli, finì coll’accanirsi contro i fratelli nella fede.

Se la crociata non fu aggressione, non fu neppure, dicevamo, guerra di religione. Ciò che importava era riaprire ai cristiani la via del pellegrinaggio verso il santo Sepolcro, nessuno aveva intenzione di convertire al Vangelo i seguaci del Corano. Non ci furono sforzi missionari. A parte qualche atto isolato di gruppetti fanatici, nessun musulmano fu infastidito per la sua fede. La Chiesa, comunque, non mise mai questo tra gli obiettivi della crociata. Come mostrano le fonti, a Gerusalemme i Templari stessi, pur sempre pronti a dar battaglia, se necessario, avevano a fianco della loro chiesa una moschea e ciascuno lasciava che l’altro pregasse il suo Dio. I primi tentativi di conversione in quei luoghi risalgono al XIII secolo, ad opera dei Francescani, quando ormai tutto era finito per i Regni cristiani e l’Islam aveva ridisteso ovunque la sua coltre. Non a caso, quei frati finirono quasi tutti martiri. Quanto al rapporto con gli ebrei, riporto qui quanto scrive uno storico americano di oggi, Thomas F. Madden. Mi sembra significativo, visto che si tratta di uno studioso protestante: «Certo, come in ogni conflitto, ci furono sventure, errori e crimini. Cose sin troppo ricordate, oggi! All’inizio della prima Crociata, nel 1095, un gruppo, condotto dal conte Emicho di Leiningen, si aprì la strada lungo il Reno derubando e talvolta assassinando gli ebrei incontrati. Senza successo, i vescovi locali tentarono di fermare la strage. Agli occhi di quei guerrieri, gli ebrei erano i nemici di Cristo. Depredarli ed ucciderli, pertanto, non era peccato. Effettivamente, credevano trattarsi di un atto retto, potendo i soldi degli israeliti essere usati per finanziare la crociata verso Gerusalemme. Ma avevano torto, e la Chiesa condannò fermamente le ostilità contro gli ebrei. Cinquant’anni dopo, quando la seconda crociata stava già per muoversi, san Bernardo proclamava che gli ebrei non sarebbero stati toccati: «Chiedete a chiunque conosca le Sacre Scritture cosa si auspica, per gli ebrei, nel Salmo. “Non per la loro distruzione io prego” sta scritto. Gli ebrei sono per noi le parole viventi della Scrittura, ci ricordano ciò di cui sempre soffrì il nostro Dio [...]. Sotto i prìncipi cristiani sopportano una prigionia dura, ma “aspettano solamente il tempo della loro liberazione”.«Ciononostante, un certo Radulf, un monaco cistercense, aizzò parecchia gente contro gli ebrei della Renania, malgrado le numerose lettere inviategli da Bernardo per fermarlo. Infine, il Santo fu costretto a recarsi personalmente in Germania, dove prese Radulf, lo spedì di nuovo nel suo convento e fece finire i massacri. «Spesso si dice che le radici dell’Olocausto possono essere rintracciate in questi pogrom medievali. In realtà, le radici affondano molto più indietro nel tempo, sono più profonde e più estese dei tempi delle crociate. Ebrei perirono, ma lo scopo non era certo quello di uccidere ebrei. È vero esattamente il contrario: papi, vescovi e predicatori assicurarono che gli israeliti non sarebbero stati molestati. Nella guerra moderna chiamiamo le morti tragiche come queste “danno collaterale”. Gli Stati Uniti hanno ucciso, con le tecnologie “intelligenti”, molti più innocenti di quanti i crociati avrebbero mai potuto uccidere. Ma nessuno oserebbe dire seriamente che lo scopo delle guerre americane è di massacrare donne e bambini».

È singolare: i credenti della mia età hanno passato buona parte della vita a confrontarsi con coloro, i comunisti, che non avevano religione. E adesso, ci tocca fare i conti con coloro, i musulmani, che di religione ne hanno troppa.

Le vie del mondo furono aperte dalla forza e dall’entusiasmo di quell’ideale struggente, non soffocato dal termine delle spedizioni e vivo sin quasi alle soglie dell’età contemporanea. Le vele delle caravelle di Colombo portavano la grande croce rossa della crociata: si cercava di raggiungere le Indie navigando verso Occidente per trovare oro ed argento che servissero a finanziare la ripresa della lotta. Con la Spagna che, varcato lo stretto di Gibilterra, avrebbe raggiunto la pur remota Gerusalemme con una marcia vittoriosa attraverso il Nord Africa. Questo il sogno de los Reyes catòlicos. Ma già nel 1245 era stata aperta ad Oriente la via dell’Asia: il francescano Giovanni da Pian del Carpine mandato, dieci anni prima di Marco Polo, presso i Mongoli per ottenere la loro alleanza, prendere l’Islam tra due fuochi e ricominciare la Crociata. Con lo stesso obiettivo, nel 1253, le ambascerie che san Luigi di Francia invia in Persia (il domenicano Ivo il Bretone) e in Cina (il francescano Gugliemo di Rubruck). Chi ricorda, poi, che a salvare l’Europa contribuirà una realtà che senza le crociate non sarebbe esistita? Come l’ordine del Tempio, i Templari, anche l’ordine dell’Ospedale, gli Ospitalieri, nacque per sorreggere lo sforzo di tenere la Terra Santa. Espulso da questa, poi da Cipro, poi da Rodi, l’Ordine, installato a Malta, diverrà la maggiore potenza navale nel Mediterraneo, la sola in grado di tenere a bada le flotte ottomane e ripulire il mare dalle imbarcazioni dei pirati in caccia di cristiani da vendere come schiavi ad Algeri o a Tunisi.

La “Garzantina”, la piccola Enciclopedia Universale, lo strumento di prima informazione più diffuso in Italia, ormai da decenni. Io pur la tengo sulla scrivania, come pronto intervento. Voce Crociate: «Quelle spedizioni ebbero alla base ragioni sociali, economiche e politiche». Queste; e queste soltanto, secondo il manuale.La fede, dunque, non è una ragione da mettere in campo, per spiegare perché, per secoli, migliaia di ricchi e di poveri, di giovani e di vecchi, di uomini ma anche di donne (quante famiglie partirono al completo!) abbiano affrontato fatica, miseria, morte inseguendo il sogno di liberare, per sempre, i luoghi santificati dal Cristo. Nella primavera del 1097, quando i capi diedero il segnale di partenza da Costantinopoli, erano in più di centomila. Allorché, due anni dopo, nel giugno del 1099, giunsero sotto le mura di Gerusalemme erano meno di ventimila: gli altri erano morti lungo il cammino o erano stati catturati, per essere venduti come schiavi, da incursioni di predoni. Ma non tirate in ballo la fede, per spiegare una simile ostinazione di raggiungere a ogni costo la meta. A chi volete darla a bere, voi cristiani? Noi sappiamo bene che i motivi erano soltanto sociali, economici, politici. Parola di enciclopedia.
Dicevamo di Franco Cardini. Gli dobbiamo anche una biografia di san Francesco in cui fa giustizia del santino tutto dialogo, tolleranza, ecologismo, costruito prima dal romanticismo e poi dalle ideologie attuali, che lo strumentalizzano per la loro propaganda.In realtà, il Francesco “vero” si aggregò alla quinta crociata e non solo non disse mai una parola di condanna o di critica, ma arrivò a dare consigli ai capi della spedizione sui modi e i tempi per affrontare la battaglia sotto Damietta. Molto addolorandosi, poi, perché l’esito fu infausto per i cristiani.Cardini rileva come molti biografi moderni abbiano rivestito di panni politicamente corretti quell’esperienza del Santo, che mal si concilia con la caricatura da “scemo del villaggio” che predica agli uccellini, parla con i lupi e abbraccia giulivo tutti quelli che incontra.Compreso il sultano: dal quale il Francesco della storia, non quello del mito, andò non per dialogare ma per convertirlo, sfidandolo anche a un’ordalia per vedere se fosse più potente il Dio di Gesù o quello di Maometto. Ma riprendiamo da Cardini: «Per sostenere l’immagine “corretta” del Santo, si sono allineati argomenti che sfiorano il ridicolo. Si è osservato, ad esempio, che egli non portava armi, fingendo di ignorare che la sua condizione di chierico gli vietava comunque di portarne. Si sono forzate le fonti per leggere – in un episodio in cui Francesco sconsiglia i crociati di dar battaglia, avendo avuta la visione della sconfitta – una specie di astuzia cui sarebbe ricorso per impedire il combattimento. Si è addirittura sostenuto – e senza giustificazione alcuna! – che avrebbe predicato ai crociati di gettare le armi. Francesco, si è concluso alla fine di questa galleria di sciocchezze, ha dimostrato di volere convertire gli infedeli con l’amore, non con la spada».
da IL TIMONE - Gennaio 2006 (pag. 64-66)
Religiosi e cavalieri
Autore: Alberto TORRESANI

Nati durante le crociate, i monaci-guerrieri svolsero compiti decisivi per la difesa della Cristianità. E ancora oggi compiono opere di autentica carità, spesso offerta nel segreto e nel nascondimento. L’odio dell’incipiente laicismo verso i templari. Il Sacro Romano Impero, fondato la notte di Natale dell’anno 800 con l’incoronazione di Carlo Magno, durò fino alla deposizione di Carlo il Grosso nell’887 per la sua manifesta incapacità di difendere l’Impero dalle incursioni dei Vichinghi. In seguito, come spesso è avvenuto nella storia della Chiesa, i Vescovi dovettero esercitare una funzione vicaria, spettante al potere centrale, ossia provvedere alla difesa locale delle città e delle campagne dalle incursioni di pirati di terra e di mare. Gli storici definiscono Età feudale i due secoli successivi per indicare il decentramento dei poteri sovrani dello Stato, comprendenti la facoltà di coniare monete, di arruolare soldati e di amministrare la giustizia in prima istanza, esercitati da vescovi-conti che operavano come autorità religiose e anche come autorità civili, avendo ricevuto in beneficio un feudo che permetteva di organizzare la difesaarmata contro Magiari, Saraceni e Vichinghi, in grado di razziare ogni estate gran parte d’Europa. La morale cristiana ha sempre giudicato lecita la guerra contro un ingiusto aggressore. Nel caso ricordato c’era anche la difesa della società cristiana aggredita da incursori pagani. Ma chi era in grado di fare la guerra a quei tempi? La società feudale è caratterizzata dalla sua semplicità. Esistevano solamente tre ceti: guerrieri, sacerdoti e contadini. I primi dovevano garantire la difesa di tutti; i secondi dovevano pregare per tutti; i contadini dovevano procurare il cibo necessario ad ognuno. Perciò le armi erano possedute e usate solamente dai nobili, per lo più discendenti delle popolazioni germaniche che avevano invaso l’antico Impero romano nel V e VI secolo. I nobili combattevano come cavalieri armati pesantemente. Avevano al proprio servizio almeno sei sergenti che combattevano a piedi e uno scudiero che doveva prendersi cura dei cavalli. Solamente i nobili potevano praticare la caccia, intesa come allenamento e fonte di proteine animali necessarie per praticare quel duro lavoro. Avendo nelle armi l’unica occupazione, i nobili erano convinti d’aver diritto a fare guerre private, intese come duelli allargati al proprio clan famigliare. Spesso anche i vescovi erano uomini d’arme, nominati dagli imperatori per accorrere sul campo di battaglia in caso di necessità. Dopo il Mille diminuirono le incursioni dei popoli accennati, ma rimase ben vivo il flagello delle guerre private, con danno per i commerci, la sicurezza delle strade, il lavoro nei campi. Per iniziativa dei monaci di Cluny e degli imperatori della casa di Franconia, furono lanciati due movimenti abbastanza simili tra loro, la Tregua Dei e la Pax Dei, miranti a impedire le guerre private nei tempi forti dell’anno liturgico (Avvento, Quaresima) e nei giorni della settimana santificati dalla passione di Cristo (dal mercoledì sera alla domenica). Chi si ostinava a far guerre private nei giorni proibiti era scomunicato. Tutti sanno che per far rispettare un divieto occorre una forza in grado di opporsi ai trasgressori. Fu trovato anche il motto per giustificare quel compito: “far guerra alla guerra”. Le Crociate furono provocate dalle richieste giunte dall’imperatore bizantino Alessio II, dopo la sconfitta subita per opera dei Turchi Selgiukidi a Manzikert in Armenia nel 1071 e un successivo massacro di pellegrini cristiani in Terrasanta. L’occidente rispose con quell’impetuoso movimento di cavalieri verso l’oriente, vissuto allora come un meritorio pellegrinaggio armato. Realizzata con successo la Prima crociata e costituito il Regno di Gerusalemme, si poneva il problema di dare continuità alla difesa di quel regno quando i crociati tornavano in occidente. È noto che la funzione produce l’organo, ossia la creazione degli Ordini cavallereschi, essenzialmente gli Ospitalieri e i Templari. I primi nacquero per dare alloggio e assistenza medica ai pellegrini in Terrasanta. I fondatori furono un gruppo di mercanti di Amalfi che misero una casa a disposizione dei malati sotto l’invocazione di san Giovanni elemosiniere, sostituito più tardi da san Giovanni Battista. Nei porti di partenza e di arrivo usati dai crociati si moltiplicarono istituzioni simili rette dai Giovanniti. Più tardi, imitando i Templari, anche i Giovanniti crearono gruppi di monaci guerrieri col compito di scortare i pellegrini dalla costa a Gerusalemme e ritorno. Così nacquero i Cavalieri di San Giovanni, più tardi conosciuti come Cavalieri di Rodi e, infine, come Cavalieri di Malta, ancora attivi ai giorni nostri alla guida di ospedali.Più noti i Cavalieri Templari per via della loro storia tragica. L’idea di formare un Ordine di monaci combattenti venne a sette cavalieri crociati verso l’anno 1119. Essi decisero di inviare in occidente uno di loro, Ugo di Payns, per ottenere l’approvazione ecclesiastica del nuovo Ordine religioso. Ugo di Payns ebbe la ventura di incontrare Bernardo di Chiaravalle, già famoso perché a sua volta aveva dato impulso al rinnovamento monastico con la diffusione eccezionale dell’Ordine dei Cistercensi, divenuto protagonista dell’espansione agraria d’Europa. L’ormai famoso abate di Chiaravalle compose la regola del nuovo Ordine cavalleresco (essenzialmente quella dei Canonici regolari), premettendo l’Elogio della cavalleria nuova, che non manca di affascinare anche i lettori d’oggi. La nuova istituzione comprendeva tre categorie di membri: i cavalieri che dovevano possedere i quattro quarti di nobiltà; i serventi al servizio dei cavalieri in battaglia; e i cappellani che espletavano i compiti propriamente religiosi. Solamente questi ultimi potevano accedere al sacerdozio, perché Ecclesia abhorret a sanguine (anche oggi i cappellani militari non possono impugnare le armi). Consta che san Bernardo non si sia accinto al compito di scrivere gli Statuti del nuovo Ordine con entusiasmo. Lo fece per obbedienza, così come per obbedienza compì un largo giro di prediche per proclamare la Seconda crociata realizzata tra il 1146 e il 1147, peraltro con infinito dispendio di forze e con poco costrutto per la difesa del Regno di Gerusalemme. Quando Ugo di Payns tornò in Terrasanta con le debite approvazioni, il re di Gerusalemme Baldovino II si affrettò a concedergli un convento-caserma posto sulla spianata del tempio di Gerusalemme e perciò quei cavalieri furono denominati “Templari”. Dal punto di vista della storia degli Ordini religiosi, i Templari sono significativi perché con loro si interrompeva la tradizione benedettina della stabilitas loci, ossia la prassi di esser assegnati a un determinato monastero per tutta la vita, per favorire il nuovo ideale di cristianizzare l’uso delle armi, ponendole al servizio di Dio e dei deboli, a protezione di pellegrini e viandanti minacciati dai predoni: insomma, far guerra alla guerra. Il reclutamento dei Templari avveniva in occidente, dove si formarono Commende dotate di beni patrimoniali per sostenerle. Quando il cavaliere aveva ultimato il noviziato dimostrando di possedere adeguata capacità tecnica per combattere, veniva trasferito oltremare, per dare il cambio ai cavalieri divenuti inabili al servizio attivo. Poiché tali trasferimenti avvenivano con l’equipaggiamento militare, divenne molto conveniente per i mercanti versare in occidente il loro oro, ricevere una lettera di credito da presentare presso le commende orientali dei Templari, che ricevevano una piccola percentuale per questo servizio, ma espletando in questo modo un vero e proprio servizio di sportello bancario, divenuto ben presto fonte di accumulo capitalistico, richiamando sull’Ordine attenzioni pericolose.L’ideale cavalleresco, in un’epoca che identificava nobiltà ed esercizio delle armi, ebbe grande diffusione. Nel XII secolo furono fondati anche i Cavalieri Teutonici, i Portaspada, e un poco più tardi i Cavalieri di Santa Maria in Germania; gli Ordini di Santiago e di Calatrava in Spagna; i Cavalieri dell’Ordine del Cristo in Portogallo. In Francia, nei confronti di Ordini religioso-cavallereschi, con reclutamento internazionale e perciò sottratti al controllo immediato del re di Francia, si sviluppò un’avversione che condusse allo scioglimento dell’Ordine dei Templari, ottenuto dal re Filippo IV nel 1311, durante il Concilio di Vienne. Il papa Clemente V (1305- 1314) indicò nella bolla di scioglimento i reali motivi di quel provvedimento, affermando che esso «era divenuto inutile in Terrasanta e inviso al re di Francia». Nel 1314 avvenne il supplizio del Gran Maestro Jacques de Molay e degli altri templari, sopravvissuti a sette anni di processi e di torture, mediante il bruciamento a fuoco lento. Essi morirono citando il Papa e il re davanti al tribunale di Dio. È un fatto che nel 1314 morirono, a pochi mesi di distanza, sia Filippo IV sia il papa Clemente V.
Bibliografia Alain Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, Garzanti, 2005. AA. VV, Storia della Chiesa. La riforma gregoriana e la riconquista cristiana (1057-1125), vol. VIII, San Paolo, 1995. Mario Arturo Iannaccone, Templari, il martirio della memoria, Sugarco, 2005. Régine Pernoud, I Templari, Effedieffe, 1993.
da IL TIMONE - Marzo 2006 (pag. 22-24)